Onorevole Arturo Parisi, i numeri del Pd sono bulgari come quelli del Pci...
«Le cifre parlano da sole: qualsiasi partito voti al 90 per cento dovrebbe preoccuparsi di se stesso».
Professore, non teme di essere diventato uno specialista in nobili sconfitte?
«Sono uno specialista di guerre di lunga durata, non di singole battaglie. E solo il fatto che oggi la scena sia dominata da una cosa che si chiama Partito democratico per me è un segno di vittoria. Solo pochi anni fa eravamo in pochissimi a parlarne».
Non pensa di aver fatto un favore a Dario Franceschini, candidandosi in contrapposizione e dando così una maggior legittimità democratica a questa elezione?
«Sono assolutamente consapevole di avergli fatto un favore, certo. Ma non mi faccio mai guidare dalla logica del dispetto o del favore: è stato un atto d’amore verso il partito, e di rispetto verso me stesso e gli impegni che ho preso. Mi pare grave invece il rifiuto delle primarie: sono il primo a riconoscere che possono esservi delle controindicazioni ad usare questo strumento. Ma siamo vissuti per anni a pane e primarie, e se si decide di abbandonare questo strumento bisognerebbe almeno spiegare il perché. Lasciare in piedi il mito ma non applicarlo alimenta una contraddizione nevrotica in questo partito».
Lei è stato un critico implacabile della linea di Walter Veltroni. Con Franceschini vede un cambio di rotta?
«Ho sentito su alcuni punti una nitidezza di posizioni maggiore. Penso ad esempio alla questione della laicità e del testamento biologico. Ma non dimentico che Dario era il vice di Veltroni, che ha servito lealmente la stessa linea del segretario uscente, una linea che ci ha portato vicini al disastro. Diciamo che siamo passati dal “ma anche” di Walter al “sì però” di Franceschini. In ogni caso bisogna vederlo alla prova dei fatti: quello di oggi era un discorso da assemblea, pensato per testimoniare unità e per sollecitare un riconoscimento, per cercare l’applauso insomma».
Dietro questa soluzione della crisi Pd c’è chi vede un ricompattamento dei Ds, che mandano avanti l’ex Ppi a fronteggiare una possibile sconfitta elettorale per poi riprendersi il partito. Pensa che andrà così?
«È uno dei copioni che abbiamo più letto nei retroscena di questi giorni. Io per ora guardo a quel che succede sul proscenio, e rilevo l’assenza di un protagonista. Pierluigi Bersani, che solo pochi giorni fa aveva riconosciuto come un errore la scelta di non correre alle primarie del 2007, e aveva annunciato l’intenzione di candidarsi dicendo di avere alcune buone idee per il partito. Mi son permesso di mandargli a dire che questo era il momento giusto per scendere in campo, se quelle buone idee le ha. Non ho sentito risposte, qui non l’ho visto ma immagino che troverà un modo più riservato per far sapere quali erano le sue idee sul partito».
Lo sospetta di opportunismo?
«La parola opportunismo presuppone un interesse personale, ha una caratura di valore morale che non mi sento di attribuire. Piuttosto può darsi che ci sia stata una valutazione, di gruppo o di partito, sull’opportunità. Personalmente, ritengo che la scelta di Bersani sia stato un rinvio imprudente, tanto più da parte di una persona che rappresenta una risorsa per il Pd, come ha detto D’Alema».
Vede risorgere le vecchie appartenenze?
«Vedo il rischio di un ritorno agli antenati. Ma non a Ds e Margherita: più indietro, a Dc e Pci».
A Veltroni invece cosa rimprovera?
«Con le sue parole d’ordine iniziali, discontinuità da Prodi e scelta solitaria alle elezioni, Walter si è illuso di partire da zero mentre stava semplicemente continuando un percorso, e di arrivare mentre eravamo molto lontani dalla meta. Ora il Pd ha cessato di essere credibile come alternativa di governo per il futuro, e non riesce ad essere plausibile come opposizione nel presente».
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