Un popolo così merita una democrazia migliore. Dico un popolo civile e pulito come quello che si è visto sabato a Roma. Ma non avrei difficoltà di dire la stessa cosa riferendomi alla maggioranza del popolo che sfila per la sinistra. Al di là dei livorosi, chi scende in piazza crede ancora alla politica, al ruolo attivo dei cittadini, ha fiducia nella partecipazione libera e democratica e vuol sentirsi popolo. Insomma, svela una passione civile, prima che un interesse.
Ieri perfino la Repubblica e il suo fondatore, Eugenio Scalfari, hanno riconosciuto che quella di sabato era una piazza bella, con facce pulite, serene, allegre. Sappiamo invece come è stata presentata finora la canea, la marmaglia berlusconiana. Plebe rozza e rancorosa, unita dall’illegalità e da una visione autoritaria della democrazia, evasori fiscali, maldestri fascisti, brutali profittatori. Adesso no, l’unico neo - grande come una piazza - sarebbe per Scalfari il loro leader. Forse sarebbe il caso di chiedersi come sia possibile che tutta quella bella gente scenda in piazza per un leader torvo e cattivo; non pensa infatti che fossero lì a prescindere dal loro leader, e magari ignorando che avrebbe parlato Berlusconi e restando sorpresi di quel che avrebbe detto. Evidentemente no, erano lì soprattutto per quel leader, per il suo governo e contro gli avversari che lo stesso leader ha indicato. Le piazze, anche le belle piazze, sono sempre contro qualcuno, a volte perfino prima di essere per qualcuno. Lo scendere in piazza presuppone comunque un conflitto con un antagonista; le piazze civili circoscrivono il conflitto alla competizione democratica, sul piano delle idee e delle azioni politiche. Le piazze incivili processano e massacrano i nemici sul posto. La politica è il regno del conflitto, mica il regno dei puffi. E anche un partito dell’amore presuppone di contrapporsi a un partito dell’odio. Ogni amore presuppone anche il suo rovescio. E in amore, si sa, non sono tutte rose e fiori...
Ma quella piazza bella e civile non merita questa democrazia. Dico una democrazia che funziona poco e male, intristita nel disservizio e nel livore, incapace di consentire un libero e rispettoso dialogo tra le parti in campo. Dico un sistema elettorale e procedurale che per un disguido tecnico impedisce di votare la propria lista nel Lazio, sacrificando la democrazia alla sua cornice. Dico una democrazia dove le classi dirigenti, da destra a sinistra, non vengono scelte sulla base del merito, della qualità e nemmeno del consenso, ma solo del grado di asservimento al clan, al capo, agli interessi di pochi. Dico una democrazia dove i capetti mediocri scelgono dirigenti più mediocri di loro, perché le intelligenze e le qualità dei sottoposti non possono superare la modesta statura dei loro principali; ne va del loro potere. Dico un Paese dove la considerazione d’immaturità del suo popolo e l’abuso di faziosità porta alle aberrazioni della par condicio col risultato grottesco che non si può parlare in tv di politica al tempo delle elezioni. Insomma, quel popolo merita una classe dirigente migliore e possibilità di espressione più adeguate.
Sono d’accordo non solo con Scalfari ma anche con Bersani quando dice che Berlusconi ha parlato da capopopolo. È vero, non c’è nulla di male; in piazza si parla da capipopolo; se pretendi di parlare da capo setta non funzioni. In piazza si capeggia un popolo, mica un’oligarchia; si parla il linguaggio diretto della gente, mica il linguaggio burocratico delle istituzioni. E non mi spaventa nemmeno la definizione di populista, o populista mediatico, che è più aggiornato all’epoca dei mass media. Perché la definizione in sé di populista non è un male o un bene, bisogna vedere a cosa si oppone il populismo. Se si oppone alla meritocrazia, al rigoroso rispetto delle leggi e della qualità, al sacrosanto riconoscimento delle aristocrazie, alla verità nuda e cruda nel nome della demagogia, a una democrazia fondata sul riconoscimento dei diritti e dei doveri, allora sì il populismo è becero. Ma se il populismo si oppone alle oligarchie, alle caste per privilegio e per derivazione ereditaria, alle sette e alle lobbies economiche, intellettuali, burocratiche, a poteri autoreferenziali che giocano sulla pelle dei popoli nel nome e negli interessi di piccole minoranze con grandi interessi, allora il populismo diventa una santa cosa. Diventa perfino una correzione democratica e libertaria della deriva oligarchica di classi dominanti. Certo, ci piacerebbe che al populismo di piazza, inevitabile mi pare e non esclusivo di Berlusconi (anche Bossi e Di Pietro, anche Vendola, Casini e Santoro sono populisti), corrispondesse poi un progetto culturale e civile, un’idea dell’Italia e un’elite in grado di esserne portatrice. E quello è il punto debole. Certo, c’è una semplificazione nel linguaggio del populismo, a volte una visione troppo manichea e militante che divide il mondo in noi buoni e loro cattivi. Visione infantile, forse efficace elettoralmente ma poco veritiera. Se devo dirla tutta, ad esempio, ho trovato mediaticamente efficace ma politicamente avvilente quel giuramento in piazza, molto americano, dei candidati alla guida delle Regioni. Ma senza perdere il lume critico che ci permette di distinguere e non sempre di approvare, non bisogna mai perdere il contesto, e si deve giudicare alla fine nel complesso.
Torno così sull’idea che quel popolo merita un elogio e ha un leader che riconosce come tale; ma tra la piazza e il palco del leader ha nel mezzo un vuoto, o comunque uno spazio non adeguatamente riempito. E una cornice, la democrazia italiana, che fa leggermente schifo.
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