Ecco i danni dell'austerity: l'Italia maglia nera dell'Ue

Il deficit scende troppo lentamente e il Pil è calato del 7,3% negli ultimi sette anni Le tasse troppo alte favoriscono la deflazione

Ecco i danni dell'austerity: l'Italia maglia nera dell'Ue

Roma L'austerity non funziona. Il deficit scende troppo lentamente, i consumi non ripartono e la deflazione fa di nuovo capolino in Italia. Sono le riflessioni di un lunedì 29 febbraio qualunque dell'ultimo quinquennio stimolate da un'analisi del Corriere basata sui dati dell'Fmi.

Nel periodo 2009-2015 l'Italia è terzultima in Eurolandia nella riduzione del rapporto deficit/Pil, calato solo di 2,5 punti percentuali. Solo Slovenia e Malta hanno fatto peggio. Persino Irlanda e Grecia sono riuscite a ottenere - obtorto collo - performance di rilievo nel contenimento della spesa pubblica. Idem per Francia, Spagna e Portogallo (con gli ultimi due che partivano da una situazione peggiore di quella italiana) che sono riuscite a raddrizzare il bilancio anche in termini strutturali, cioè al netto della congiuntura economica più favorevole di quella registrata a Roma.Che cosa non ha funzionato in Italia? O, messa in altri termini, cosa ha funzionato a Parigi e a Madrid? I nostri competitor sono riusciti a rilanciare la crescita. Nei sette anni in esame, infatti, l'Italia ha perso il 7,3% di prodotto interno lordo a fronte del -6% della Portogallo, dell'1,9% della Spagna e del +3,2% della Francia. L'aumento della pressione fiscale in rapporto al Pil e la sostanziale stabilità dei salari hanno vanificato gli sforzi di aggiustamento del bilancio che, al di là degli eccessi montiani, per l'Italia è un obbligo visti i 2.200 miliardi di debito.

La mancata crescita del Pil ha ristretto progressivamente il numeratore del rapporto facendo sì che il deficit rimanesse consistente e che la pressione fiscale rimanesse costante o crescesse anche a fronte di una sostanziale invarianza del gettito. Oggi, semplicemente, si pagano le conseguenze di questa situazione: troppe tasse e redditi fermi (e la discesa dei prezzi del petrolio) hanno fatto tornare la deflazione dopo nove mesi. A febbraio, secondo i dati preliminari Istat, l'indice dei prezzi al consumo è diminuito dello 0,2% su base mensile e dello 0,3% rispetto allo stesso mese dell'anno scorso (+0,3% a gennaio). La marcata flessione, secondo l'istituto di statistica, è dovuta a una dinamica congiunturale caratterizzata da cali dei prezzi diffusi «a quasi tutte le tipologie di prodotto», che si confronta con quella positiva di febbraio 2015. La deflazione, come gli italiani hanno imparato negli anni scorsi, ha una spiegazione principalmente psicologica: si rimandano gli acquisti aspettando il momento giusto per non privarsi di liquidità che potrebbe essere necessaria in qualsiasi momento.

Insomma, così come la mancata crescita è imputabile all'austerità (o a una spending review che ha finito col penalizzare solo gli investimenti) allo stesso modo la deflazione è tutt'uno con la paura di un ulteriore peggioramento della congiuntura economica. Lo si è visto anche in Eurolandia dove a febbraio i prezzi al consumo sono scesi dello 0,2 per cento. Se le Borse ieri non hanno registrato il solito arretramento (Parigi e Milano sono state le migliori con un +0,9 e un +0,8% rispettivamente), è solo perché gli operatori scommettono su un nuovo intervento della Bce di Mario Draghi nella riunione del 10 marzo.

L'attesa è di un incremento degli acquisti di titoli da parte dell'Eurotower dai 60 miliardi attuali a 70-80 miliardi, magari estendendo gli acquisti alle obbligazioni societarie. L'immissione di liquidità, infatti, non ha raggiunto i cittadini comuni, ma questo è anche compito dei governi abbassando le tasse.GDeF

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