Dietro i mattoni rossi della grande scuola di suore, il nitore di una classe: in quella classe due banchi accostati, e due ragazze che giorno per giorno crescono, affastellano studi, progetti, confidenze, come tutte le Speranze e le Carlotte del mondo. Per cinque anni, alle Canossiane di Brescia, Elena e Francesca, compagne di banco e amiche del cuore, avevano riso, pianto, sognato insieme. E parlato di un futuro che non avrebbero mai vissuto.
Le uccide, una dopo l'altro, lo stesso mostro: quel mostro che ogni volta ha nomi e facce diverse ma è in fondo sempre lui, il maschio che non sa fermarsi né rispettare, il maschio che scambia le sue pulsioni per un diritto e ogni rifiuto per un oltraggio. È questo mostro inestirpabile a spezzare, a quattordici anni di distanza, le due vite.
Francesca Fantoni il 23 agosto del 2006 era lì, nella grande chiesa di San Gaudenzio, a piangere la bara coperta di fiori di Elena. Elena era morta in un'altra chiesa, quella di Santa Maria a Mompiano, dove era entrata per accendere una candela. Il giovane sacrestano l'aveva aggredita, colpita, buttata a terra: ma non era stata la botta in testa ad ucciderla. Il sacrestano l'aveva legata con il nastro, infilata in un sacco, nascosta sotto il pulpito. Era morta soffocata: «orrendamente trucidata», disse il procuratore della Repubblica. Aveva appena ventitrè anni.
È facile, oltre che essere straziante, immaginare oggi i pensieri d Francesca il giorno dei funerali di Elena. Si sarà sentita anche lei vittima, mutilata dei ricordi delle speranze comuni, delle chiacchiere, dei litigi? Forse avrà pensato: poteva toccare a me. E non poteva immaginare che un giorno le sarebbe toccato davvero.
L'assassino di Elena aveva la sua stessa età, un ragazzo del sud del mondo arrivato, accolto, benvoluto. Disse di non avere fatto apposta, e poi di essere stato preso dal panico. Al processo gli diedero diciott'anni, e alla famiglia apparve una pena troppo lieve: alla madre, Caterina, che pure si portava addosso il rimorso di essere stata lei a mandare Elena in Santa Maria ad accendere il cero, il giorno in cui sarebbe stata uccisa; e al padre, Aldo, che ancora pochi anni fa, nell'anniversario del delitto diceva: «Io non perdono».
Oggi l'assassino di Elena è semilibero, e tra una manciata di mesi avrà finito di scontare la sua pena. Nel carcere di Brescia ha potuto diventare adulto, capire la disumanità del suo gesto. In questi quattordici anni, a pochi chilometri di distanza, anche Francesca era cresciuta e diventata donna. Ma non è stata una vita facile. Ora che è morta anche lei, le notizie d'agenzia parlano crudamente di «problemi psichici», di «difficoltà cognitive». Chissà se è vero. E chissà quanto ha pesato nelle fatiche di Francesca la tragedia di Elena, quanto di lei si è spezzato per sempre, quanto soffocato come la sua amica dallo scotch e dal cellophane nel sudario improvvisato del sacrestano.
L'unica cosa certa è che anche lei è morta, come Elena. Era scomparsa sabato dalla casa di Bedizzole dove viveva con i genitori ormai anziani; l'hanno ritrovata l'altro ieri, in un parco pubblico poco distante, buttata tra gli arbusti. La sera stessa i carabinieri hanno fermato un ragazzotto del paese, e dapprima si era sparsa la voce che avesse già confessato: poi la Procura ha smentito, l'arrestato si proclama innocente, ma a casa sua hanno trovato dei vestiti sporchi di sangue. Ma chiunque sia stato, le tracce trovate sul corpo di Francesca e intorno ad esso parlano: e dicono che anche lei, come la sua amica, è stata uccisa perché donna, e quindi oggetto e preda.
Le storie di Elena e Francesca si erano separate nel modo più tragico che si potesse immaginare: e si ricongiungono adesso in maniera altrettanto terribile, spezzate entrambe dallo
stesso flagello a quattordici anni di distanza. Ora, per chi crede, sono di nuovo una accanto all'altra, come sui banchi della scuola di via Diaz. Ma non hanno niente di bello da raccontarsi, nulla di cui ridere insieme.
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