Grillo gela la fronda Pd e fa un assist al premier

Il leader M5S boccia l'ipotesi Prodi, caldeggiata dalla minoranza dem per far saltare il patto col Cav E la guerra nel partito si sposta su fisco e Italicum

«N omi da tunnel dell'orrore di un Luna park», attacca Beppe Grillo dal suo blog. E se per la corsa al Quirinale il gioco della minoranza dem contro Matteo Renzi era entrare in sintonia con i pentastellati sul candidato Romano Prodi, queste parole sono una doccia fredda. Sì, perché il leader M5S prende di mira Veltroni l'Africano, Fassino «la mummia egizia di Torino», Grasso, la Finocchiaro, Mattarella, Amato e, dulcis in fundo , proprio il Professore. Il suo, è un no chiaro: «Il supercandidato, che è stato impallinato dai voti dei renziani nel 2013 ma ora che l'euro va in pezzi e ne subiamo il disastro economico, è lui che ci ha portato, non sembra proprio il candidato più adatto. Oggi sarebbero più di 202 a votargli contro».

Il Professore l'ha rilanciato Pier Luigi Bersani che ha avuto un contatto con il premier, dopo che mercoledì si sono incontrati il ministro Boschi e il bersaniano Migliavacca per cercare un accordo. Invano, le posizioni restano distanti e dopo l'uscita di Grillo la strategia va rivista.

Prima che lui parlasse, Stefano Fassina cercava il legame con il M5S insistendo sul superamento del Patto del Nazareno e citando i criteri di buon senso per il profilo del candidato presidente: autorevolezza, autonomia dall'esecutivo e massima capacità di unire. Peccato, che citasse giusto l'opzione bocciata da Grillo («Io l'ho votato nel 2013 e lo voterei. Vogliamo contribuire a soluzioni più larghe e più unitarie possibili. Certamente Prodi rappresenterebbe bene i criteri che ho indicato), pur aggiungendo che «è necessario lavorare a trovare convergenze, quindi fare nomi ora non è opportuno».

Alla vigilia della direzione del Pd, la minoranza si prepara a mettere in difficoltà il tentativo di Renzi di tenere unito il partito anche gettando sul tavolo la questione del decreto fiscale. «Bisogna sgomberare il percorso dell'elezione del presidente della Repubblica - ribadisce Fassina- da condizionamenti impropri e inaccettabili, come il rinvio del decreto fiscale al 20 febbraio».

Ma il vero banco di prova sembra quello delle riforme. La minoranza Pd vuole costringere Renzi al compromesso soprattutto sulla legge elettorale, assediata da 40mila emendamenti, alcuni firmati dal bersaniano Gotor: al Senato la lista degli oppositori Dem all'Italicum conta quasi 40 nomi e la minaccia è di non votare la riforma. Si potrebbe vedere un fronte con pezzi di Fi ed i fittiani, che va da Civati a Sel, da Fassina ad esponenti di M5s,Ncd e Udc. Sui capilista bloccati si continua a mediare e ieri il premier ha incontrato Vannino Chiti, ma per Fi è un punto fermo.

È chiaro che la corsa al Quirinale è ormai nel Pd merce di scambio e se, invece di obbedire all'ordine di votare scheda bianca, la minoranza convergesse su un nome, Renzi sarebbe in difficoltà. Soprattutto, se si trattasse di Prodi, fumo negli occhi per Berlusconi.

Francesco Boccia, raccomanda: «Convergere su un identikit da condividere con gli altri partiti. E solo poi avanzare una lista di tre, quattro nomi che rispecchiano tali caratteristiche per giungere alla più larga condivisione con quelli che ci stanno».

E mentre Massimo D'Alema precisa che non esiste un'«area dalemiana» nelle manovre per il Quirinale ( «voci messe in circolazione per lotta politica interna al Pd»), sul suo blog Pippo Civati, ripete: «Per mesi ci è stato detto

che il patto del Nazareno non comprendeva la presidenza della Repubblica e non ci interessano i veti di Berlusconi. Quindi perché non si può immaginare una proposta al Parlamento senza passare prima e soprattutto da lui?».

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