Per i barconi ce la vedremo con l'Isis

Una cosa è certa non sarà una semplice operazione di polizia internazionale. E neppure una passeggiata. Ci vorrà un bel po' per capire se gli incontri di ieri a Mosca tra il nostro ministro Paolo Gentiloni e il suo omologo russo Serghiei Lavrov sono serviti ad ammorbidire la diffidenza russa nei confronti dell'operazione europea che punta a colpire i barconi e i trafficanti di uomini attivi in Libia. Ma se mai Mosca rinuncerà al suo diritto di veto e l'Onu darà il via all'indispensabile risoluzione, l'Italia dovrà iniziare a fare i conti con le incognite di una missione che minaccia di trasformarsi nella replica della spedizione in Somalia del 1993. Anche allora partimmo con la benedizione dell'Onu e con il nobile intento di portare aiuto ad una popolazione civile vessata e affamata dai signori della guerra. Ma alla fine ci ritrovammo a combattere un giorno sì - ed un altro pure - con le bande di Aidid e compagni. Stavolta invece di Aidid rischiamo di fronteggiare le milizie dello Stato Islamico. Perché mentre Federica Mogherini corre tra Bruxelles e New York e Gentiloni fa la spola con Mosca lo Stato Islamico avanza. La scorsa settimana ha rifilato una batosta senza precedenti alle milizie di Misurata che circondavano Sirte, l'ex roccaforte gheddafiana caduta a febbraio nelle mani del Califfato. Approfittando della connivente indifferenza di Tripoli - che non ha garantito adeguato sostegno alla Brigata 166 di Misurata incaricata di contenere dentro Sirte i terroristi - lo Stato Islamico è letteralmente dilagato. Da venerdì le sue bandiere nere sventolano sull'aeroporto di Gardabya, venti chilometri a sud della città, sede fino a poche ore prima del comando delle Brigata 166. Nelle stesse ore i miliziani di Misurata sono stati costretti ad abbandonare anche le posizioni a est della città e la centrale elettrica, punto chiave per il contenimento della formazione terroristica sul versante ovest. Approfittando della «debacle» nemica sabato lo Stato Islamico ha messo a segno il secondo attentato suicida alle porte della stessa Misurata uccidendo cinque miliziani locali. A questo punto i militari italiani mandati a cercare e distruggere i barconi dovranno ipotizzare di scontrarsi anche con lo Stato Islamico e non solo con i trafficanti di uomini o con quelle milizie islamiste che già fanno sapere, tramite il premier di Tripoli Khalifa al-Ghweil, di non tollerare interventi sul proprio territorio. Affrontare un gruppo assai meglio addestrato delle milizie libiche ed abituato a combattere utilizzando tattiche suicide e terroristiche rischia però di rivelarsi estremamente complesso. I nostri militari operando dalle navi non avranno quel contatto con le popolazioni locali indispensabile per raccogliere informazioni preziose. L'assenza dal territorio offrirà inoltre mano libera alla propaganda dello Stato Islamico pronto a presentarsi, esattamente come Aidid in Somalia 22 anni fa, alla stregua di paladino delle popolazioni libiche minacciate dagli ex colonialisti. E in questa situazione, già non rosea, dovremo collaborare con le truppe di quella Francia e quell'Inghilterra che in Libia, dal 2011 in poi, hanno perseguito obbiettivi divergenti se non concorrenziali rispetto all'Italia.

Esattamente come in Somalia nel 1993 dove, mentre combattevamo i signori della guerra, dovevamo guardarci dalle insidie di un alleato americano che perseguiva obbiettivi completamente divergenti. Quella volta finì in un disastro. Stavolta speriamo che la storia non si ripeta.

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