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"I medici italiani non abituati a riconoscerla. Nel Sud Est asiatico io curato in tre giorni"

"A Bangkok mi diedero subito delle pastiglie. A Milano dissero: aspettiamo"

"I medici italiani non abituati a riconoscerla. Nel Sud Est asiatico io curato in tre giorni"

Pigliala in Italia o in un altro paese civile e rischierai di crepare perché gli ospedali tarderanno a riconoscerla e a curarla. Prendila in Africa o in Asia e te la caverai in tre giorni al pari di un raffreddore. È il paradosso malaria. Un paradosso sperimentato sulla propria pelle da migliaia di viaggiatori e, un paio di volte, anche dal sottoscritto.

Il mio primo incontro ravvicinato con il Plasmodium Falciparum risale all'ottobre 1984. A quel tempo sono appena rientrato in Thailandia dopo una settimana con la guerriglia anti-vietnamita nella giungla cambogiana intorno alla città di Pailin. Una giungla da paura, così fitta da non lasciar passare la luce del sole, così infestata di zanzare da render inutile qualsiasi prevenzione antimalarica. E così quando al ritorno a Bangkok sento cadermi addosso la tipica stanchezza da novantenne accompagnata da un mal di testa che mi trapana il cervello corro dall'amico Marcel, un medico francese responsabile dell'ufficio di Msf in Thailandia. Lui, con una praticaccia degna del posto, mi allunga le pastiglie della terapia ancor prima di visitarmi. «Intanto pigliale così siamo sicuri che non degenera in cerebrale poi quando arriva il mio infermiere facciamo il test. Se non è malaria tanto meglio, di certo non morirai per tre pillole. Se invece l'hai presa devi solo concludere la cura. E così 72 ore - e qualche decina di asciugamani di sudore dopo - sono già ad una festa a casa sua. Lì Marcel, dopo avermi scrutato, decreta la fine del trattamento. «Sei a posto, ora scolati qualche bicchiere di coca e Meckong (un mefitico succedaneo del whiskey distillato in Thailandia), prenditi una bella sbronza e vai a dormire. Domani ti sarai dimenticato di averla avuta». Sante parole perché la mattina dopo, sarà stato per i 24 anni, sarà stato per il Meckong sono già pronto a partire per la frontiera birmana.

Invece nel 2004 quando - vent'anni dopo - faccio in tempo a volare a Milano dopo due settimane passate in balia delle voraci anophele del Sud Sudan la situazione appare subito complicata. Mentre spiego con precisione da manuale sintomi e fastidi dell'imminente malaria il dottore del pronto soccorso mi guarda come se fossi un mitomane. Per lui l'unica evidenza è quella di un termometro ancora fermo a meno di 37 gradi. Spiegargli che tra i sintomi non sempre, o almeno non subito, compare la febbre è una missione impossibile. E altrettanto impossibile è convincerlo a farmi un test che il più sconquassato ospedale africano effettua in meno di dieci minuti. A sentir lui è «molto meglio aspettare altre 24 ore». «Giusto il tempo - penso io - in cui si muore di malaria cerebrale non trattata».

Giusto il tempo di cambiare pronto soccorso e di presentarmi al prossimo medico con un'indiscutibile e inconfutabile certezza. «Guardi ho la malaria, ho fatto il test in Sud Sudan, ma era un ospedale da campo e non mi hanno rilasciato nessuna diagnosi scritta». Neanche un'ora dopo un test e un certificato con la scritta «positivo» confermavano la mia diagnosi.

Che non sarà stata professionale, ma sicuramente tempestiva.

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