Fare impresa in Italia non è un'operazione conveniente. Questa verità, da ieri, trova riscontro anche nelle elaborazioni dell'Ocse che ha comparato per il 2014 i diversi modelli di tassazione delle piccole e medie imprese nei Paesi che ne fanno parte. Si può quindi affermare che, nonostante il tono assolutamente neutro del dossier, che anche l'organizzazione parigina si sia resa conto dei pesanti svantaggi competitivi delle pmi italiane nel contesto globale dell'economia.
L'analisi dell'Ocse, infatti, esamina due differenti tipi di tassazione cui sono sottoposte le aziende: quella sul lavoro e quella sui capitali (dividendi, capital gain , eccetera). La componente del lavoro vede notoriamente il nostro Paese ai primi posti come pressione fiscale. In Italia, considerando anche i contributi previdenziali e sociali, il fisco porta a casa il 54% dei ricavi. Si tratta di un livello che colloca l'Italia sul podio tra i Paesi sviluppati perché solo Belgio (64%) e Francia (56%) premono ancor di più l'acceleratore sulla fiscalità relativa alla manodopera. Corea del Sud, Giappone e Messico registrano prelievi inferiori al 30%. L'Italia è messa peggio anche di Svizzera, Gran Bretagna e Stati Uniti che, notoriamente, non hanno nelle pmi il loro punto di forza economico.
Il paradosso italiano è rappresentato dal fatto che la situazione tende a migliorare leggermente quando si evidenziano i casi di doppia tassazione, cioè quelli relativi ai casi nei quali dividendi e plusvalenze rientrano nella base imponibile. Si tratta di casi più rari perché una piccola impresa generalmente non fa parte o non costituisce gruppo societario. Ebbene, in Italia la pressione fiscale per chi è soggetto anche a imposte sui cosiddetti corporate income oscilla tra il 46 e il 48 per cento, valori poco al di sopra della media Ocse. Insomma, per un'azienda italiana - come per quasi tutte quelle dei Paesi sviluppati - conviene più finanziarizzarsi che puntare sul lavoro e sulla produttività, notevolmente penalizzati da una tassazione pesantissima, a partire dal fardello dell'Irap.
Al di là degli effetti benefici della decontribuzione per i neoassunti prevista dalla legge di Stabilità 2015 (2 miliardi in cerca di conferma anche per l'anno prossimo), l'Italia è in una posizione di svantaggio. Lo conferma anche il fatto che le pmi del nostro Paese non godono di particolari regimi di favore. Le due uniche previsioni che alleviano il carico fiscale sono le detassazioni - generalmente in regime forfettario - previste per le startup (soprattutto le innovative) e le esenzioni sull'imposta di successione in caso di conservazione dell'investimento.
«Stiamo pensando, nell'ambito dei vincoli disponibili, a un ulteriore abbattimento della tassazione a favore della competitività delle imprese», ha detto ieri a Cernobbio il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, facendo eco agli annunci della collega dello Sviluppo, Federica Guidi su nuovi incentivi per gli investimenti. Ma quello che si dà con una mano con l'altra può essere tolto. «Abbiamo milioni di informazioni, di dati che fino a pochi mesi fa erano segreti», ha ribadito il direttore dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, riferendosi agli accordi tra i Paesi Ocse per lo scambio di informazioni. Il Grande Fratello fiscale è un'altra minaccia burocratica.
L'immagine che restituiscono i dati Ocse, perciò, è quella di un Paese nel quale le pmi sono condannate a restare piccole per usufruire di qualche trattamento migliore. Nel quale conviene distribuire dividendi piuttosto che reinvestire nella crescita. Su tutte queste problematiche il loquace premier Matteo Renzi spesso ha fatto scena muta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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