Il prossimo 6 maggio il «made in», la proposta di regolamento che imporrebbe di indicare il paese di fabbricazione dei prodotti anche non alimentari, già votata a larga maggioranza dal Parlamento europeo un anno fa, è all'ordine del giorno nella riunione della Commissione Ue. E Antonio Tajani, che prima da commissario ha presentato la proposta - importantissima per le imprese italiane - e ora da vicepresidente del Parlamento europeo la difende, mette in guardia dal rischio di passi indietro e, oltre a presentare un'interrogazione sull'argomento diretta alla Commissione, lancia un appello al suo presidente, Jean Claude Junker. «So che è sensibile a questo tema, e gli chiedo di difendere il “Made in”, un sistema che tutela le imprese europee e aumenta l'occupazione, senza prestare orecchio a qualche euroburocrate».
L'inserimento all'ordine del giorno dell'argomento riapre il dibattito sul «made in», spiega Tajani, «ma spero non per affossarlo», aggiunge. A opporsi all'obbligo di indicare la nazione in cui un prodotto è stato realizzato sono soprattutto alcuni Paesi del Nord, come Olanda e Gran Bretagna. Ovviamente sarà necessario trovare un compromesso, ma è proprio sui confini di quest'ultimo che l'europarlamentare di Forza Italia è pronto ad alzare barricate. «Faremo di tutto - spiega - perché la Commissione adesso non faccia marcia indietro rispetto alla proposta originaria formulata della Commissione Barroso».
D'altra parte all'inizio dello scorso autunno l'Italia aveva chiesto alla Commissione uno «studio d'impatto» per valutare i potenziali benefici, e i vantaggi sarebbero stati confermati per molte categorie industriali, e in partitolare per settori importanti come quelli del tessile, delle calzature e della ceramica. Il rischio è che di fronte alle resistenze la proposta venga ritirata, o che la ricerca di una soluzione mediata partorisca un «made in» svuotato di significato. «Non accetteremo una marcia indietro - ribadisce Tajani - ma nemmeno un sistema impostato su base volontaria, di fatto facoltativo». Il vicepresidente del Parlamento europeo, invece, è possibilista su un «made in» limitato ad alcuni settori per trovare una soluzione di compromesso, ma senza accettare esclusioni per il ceramico, il calzaturiero e il tessile, dove l'etichettatura di origine avrebbe, per l'Italia, una grande rilevanza. «Per noi è una priorità - taglia corto Tajani - e non accetteremo che questi settori vengano in alcun modo danneggiati». Il «made in», tra l'altro, non tutela solo l'industria, ma mette al riparo anche i consumatori dal rischio di comprare prodotti contraffatti o pericolosi. Tajani lo rimarca nell'interrogazione presentata ieri, ricordando che i cittadini «potranno finalmente sapere dove è stato fabbricato il prodotto che si accingono ad acquistare». Una novità non da poco considerando che «meno del 10 per cento dei prodotti di consumo sottoposti al sistema di controllo Ue è riconducibile al produttore finale, con seri rischi per la sicurezza e per la trasparenza delle produzioni». Per fare un esempio, nel 2014 il sistema europeo di allerta Rapex, che segnala i prodotti non alimentari pericolosi, ha prodotto 2435 segnalazioni, nel 23 per cento dei casi riguardanti il comparto tessile.
Quella del «made in» è insomma una battaglia a cui l'industria italiana guarda con grande interesse, e che richiederebbe più che mai in questo delicato passaggio la massima attenzione. «Renzi lasci perdere almeno per qualche ora le beghe interne al Pd e la legge elettorale», insiste Tajani. «Questo - prosegue - è il momento di concentrarsi nella difesa del “made in”, un sistema che per tutelerebbe tra l'altro migliaia di posti di lavoro».
E un sistema, come detto, che per il Parlamento europeo dovrebbe essere già obbligatorio, visto che il 15 aprile del 2014 l'aula ha approvato la relazione sulla proposta di regolamento del «made in» a larga maggioranza (485 favorevoli, 130 contrari e 27 astenuti).- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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