"Non credo alle sue parole, invidiava la normalità"

La psicologa: «Bisogno di protagonismo. Ossessionato dal punire il mondo che aveva di più»

"Non credo alle sue parole, invidiava la normalità"

Essere ammazzato così per caso. Stefano Leo, 34 anni, è morto per una «banalità sconvolgente» come ha detto il giudice. Passare nel posto sbagliato all'ora sbagliatissima.

Professoressa Vera Slepoj, l'omicida dice che l'ha ucciso perché sembrava felice. Cosa ne pensa?

«Non credo che sia la vera motivazione»

Cosa non la convince?

«Leggiamo che l'uomo è depresso, ma ogni manuale di psicologia insegna che il depresso solitamente si sente implodere in se stesso e in lui piuttosto, matura un sentimento di auto eliminazione. Qui qualcosa non torna a meno che...».

Cosa?

«A meno che la depressione non centri niente. Vedo piuttosto un desiderio di stabilire un potere sugli altri. Prova è che il killer si sarebbe preparato all'evento. Ha comprato i coltelli, ha aspettato la sua preda. L'ha scelta con determinate caratteristiche».

Appunto, lui dice perché sembrava felice.

«Ma lui cosa ne poteva sapere della felicità di questo ragazzo? Mica saltellava per strada. No, la verità è un'altra: lui voleva colpire la normalità di quel giovane che camminava con le cuffiette nelle orecchie. Non la sua felicità. Da quello che sappiamo l'omicida si era separato, non vedeva più il figlio. Ecco. La normalità degli altri: è questo ciò che lo disturbava e che lui voleva annientare.

Una invidia insopportabile e malefica quindi?

«Esattamente. Nata sulla base di un pensiero ossessivo: dover punire il mondo perché il mondo ha più di quello che ha lui, che lui non ha più. Si è attrezzato per uccidere, ha costituito un suo obiettivo, e non dimentichiamo che uccidere è il più grande potere dell'uomo sull'uomo. Con l'uccisione si determina una supremazia, un dominio, un controllo tragico e assoluto sull'altro. L'uccisione in questo caso nasce dal bisogno di stabilire se stessi e quindi un potere. Lui odia tutta l'umanità, e in più di pari passo ha un disperato bisogno di essere riconosciuto. Ecco perché la depressione non c'entra molto; di fondo c'è un fortissimo bisogno di protagonismo».

Ha confessato di aver scelto una vittima giovane, per fare più scalpore possibile.

«Infatti, torniamo al bisogno patologico e ossessivo di protagonismo. A questa forma d'odio. Voleva togliere le speranze, simbolicamente voleva colpire un uomo nel pieno delle sue aspettative nei confronti della vita, dell'attesa. Un giovane non ricco, ma normale. E ha voluto punire la società che non si accorge di lui».

Quindi la sua invidia lo ha portato a vendicarsi?

«Parliamo ovviamente di menti disturbate. E poi l'arma usata non è casuale».

Un coltello.

«Appunto, lo sgozzamento è un rito, un sacrificio, una punizione in cui si ribadisce la sottomissione dell'altro che lui riteneva di dover punire. Ha visto la sua preda, lo ha aspettato e lo ha sacrificato, gli ha preso l'anima, non i soldi».

Da dove nasce l'invidia?

«Dalla solitudine».

Ma oggi si dice

siamo tutti più soli...

«È la società egocentrica che ci siamo costruiti. In passato nell'immaginario collettivo c'era il bosco per delineare il rischio. Oggi il fortino ha perso gli argini. Il pericolo è ovunque».

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