Non svela i codici alla polizia: in cella manager di Facebook

L'uomo fermato su ordine di un giudice brasiliano: si rifiutava di sbloccare dei WhatsApp sotto indagine

Paolo ManzoSan Paolo (Brasile) Il narcotraffico è una cosa seria, soprattutto in Brasile, paese che da tre anni ha scavalcato la Colombia diventando l'esportatore leader mondiale di cocaina. Dunque non deve stupire l'arresto del manager Diego Dzodan, ex Techint e Andersen Consulting, MBA ad Harvard ma, soprattutto, numero 2 di Facebook in America latina e responsabile massimo della multinazionale fondata da Mark Zuckerberg nel paese del samba.Sia chiaro, Dzodan non è un boss ma è finito in carcere per avere disubbidito agli ordini, reiterati, di un giudice che da tempo sta indagando su alcuni presunti narcos importanti. Il magistrato voleva che il sistema di messaggistica WhatsApp - con cui i trafficanti comunicavano tra loro le partite di droga - venisse «aperto» e messo a disposizione degli inquirenti. Questa applicazione gratuita nel 2014 è stata acquistata da Facebook e Dzodan - che in Brasile risiede con regolare visto - si è sempre rifiutato di obbedire alle intimazioni della magistratura. Lo ha fatto per mesi fino a ieri mattina, quando per lui sono scattate le manette. Argentino, grande esperto di software, marketing e pubblicità, al momento dell'arresto stava uscendo da casa, nell'Itaim Bibi, uno dei quartieri più chic di San Paolo, per recarsi negli uffici di Facebook. A bussare alla sua porta col mandato di cattura in mano la polizia antidroga brasiliana. Pesante l'accusa nei confronti suoi e di WhatsApp: favoreggiamento al narcotraffico. Diego non c'entra nulla con i cartelli della droga e la sua assicurano a Il Giornale amici e conoscenti - è una vita specchiata, tutta lavoro e famiglia, con in cima ai suoi interessi le sue giovani figlie. «Siamo sconcertati» hanno fatto sapere da Facebook con un comunicato stampa piccato. Naturalmente l'arresto ha fatto subito il giro del mondo ed a molti ha ricordato il caso statunitense della querelle FBI-Apple, con la prima desiderosa di avere tutti i dati dell'iPhone dei terroristi di San Bernardino, e la multinazionale fondata da Steve Jobs che risponde picche.Negli Usa la giustizia ha sinora dato ragione ad Apple, in Brasile invece ha fatto arrestare il numero uno dell'azienda responsabile della mancata collaborazione.

Due reazioni opposte e, pur trattandosi di narcotraffico invece che di terrorismo, la domanda è doverosa in entrambi i casi dal punto di vista etico: sin dove la privacy deve prevalere sulle inchieste quando in ballo c'è il crimine?Il problema, soprattutto quando si parla di social network usati per scambiarsi messaggi, è evidente anche perché non è la prima volta che WhatsApp entra in rotta di collisione con la giustizia verde-oro. Lo scorso 16 dicembre, infatti, l'applicazione era stata bloccata per due giorni in Brasile dopo che Facebook si era rifiutata di fornire alla magistratura i dati dei presunti membri di una gang criminale.

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