«M i dispiace, devo andare, il mio posto è là...». La musica dei Pooh arriva da una festa di matrimonio poco lontana e fa da sottofondo a Stefano Parisi, mentre critica il governo Renzi su economia e riforme, attacca il neostatalismo della Confindustria, esprime dubbi sul sistema giudiziario che «genera incertezza» alle imprese, invita a «cambiare le politiche pubbliche per lo sviluppo, andando oltre privatizzazioni e cessioni».
È l'economia secondo Parisi, in trasferta a Lodi lunedì, subito dopo l'incontro a Villa Certosa con Silvio Berlusconi. Cena in piazza con Franco Debenedetti, autore di Scegliere i vincitori, salvare i perdenti, poi la presentazione del libro organizzata da Lodi liberale in un'aula della biblioteca ristrutturata di fresco da Michele De Lucchi. All'ingresso, applausi al fondatore di Chili (così recita il cartellino sul palco dei relatori), poi si parte e l'attenzione sale.
Leit-motiv della serata è un'orgogliosa rivendicazione del liberalismo popolare del 1994 di Berlusconi, ma non «delle grandi imprese che chiedono di non avere vincoli» né dell'«Europa, che è liberale ma viene respinta perché fatta da élites». Un liberalismo di popolo da attualizzare alle nuove frontiere: welfare, famiglie e privato sociale, concorrenza tra Stato e imprese nell'offrire servizi pubblici. «C'è una cultura ipocrita, che non prende atto che nel welfare un ruolo fondamentale ce l'hanno le famiglie con un anziano, un disabile, un disoccupato. Vogliamo riconoscere a queste famiglie benefici fiscali?».
La piccola platea è eterogenea, visti i disputanti, va dall'anziano e battagliero reduce dai campi di concentramento a giovani di sinistra a simpatizzanti azzurri a gente senza dimora politica ma intellettualmente curiosa. Molti i punti di distanza tra Parisi e Debenedetti sull'attualità, ma la lettura è simile: ha fatto il suo tempo lo Stato che decide dove e come deve andare l'economia. Così, se è Debenedetti a regalare l'assist sul presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia («assurdo che chieda una politica industriale per il Paese»), Parisi schiaccia: «Che Confindustria chieda una politica industriale, e non un Paese competitivo, è culturalmente molto grave». Poi: «Sindacato e Confindustria hanno perso rappresentatività».
Vengono in mente battibecchi e defezioni di Berlusconi ai grandi appuntamenti degli industriali. Un po' la ragione per cui in tanti dicono che le parole di Parisi sono già sentite e le facce già viste, che gli italiani non sono liberali, il liberalismo non può attecchire e lui non può farcela. Lui replica che non è la teoria del '94 l'errore, ma ciò in cui è degenerata: «Nel '94 Berlusconi fece passare il messaggio di un liberalismo non elitario, come libertà per tutti, che si radicò nella cultura. Adesso mandiamo messaggi troppo confusi e statalisti». Come la difesa della regolarizzazione dei precari della scuola, che avviene anche nel centrodestra, o articolo 18 e lavoratori pubblici. O un certo filo renzismo sul Job Act. Invece, sostiene, «il governo non ha liberalizzato per nulla il mercato del lavoro: siamo uno dei pochi Paesi europei in cui se un'azienda vuole licenziare per giusta causa deve andare dal giudice». Gli attacchi a Renzi non finiscono qui.
«La riforma istituzionale non ha coraggio, il coraggio è porre le questioni in modo semplice. Se invece di cincischiare e rompere con Berlusconi su una stupidata, perché se sapessimo su cosa hanno rotto... Adesso avremmo una riforma». Così non pare. E il suo «No» al referendum è ancora più forte è chiaro.
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