Altro che governo colto di sorpresa dall'emergenza. Altro che tsunami di contagi inaspettato. Il 20 gennaio il ministro della Salute aveva già preparato un piano di emergenza per contrastare il coronavirus. Ma era troppo terrificante per poterlo diffondere, allora ha pensato bene di chiuderlo in un cassetto. E contemporaneamente di ignorare le richieste delle aziende che si proponevano per fornire mascherine all'Italia.
Il dossier è stato nascosto perché avrebbe provocato il panico. Eppure era proprio quella l'arma che avrebbe evitato il film dell'orrore che siamo stati costretti a vivere. Avrebbe permesso di giocare, se non d'anticipo, almeno non in ritardo. Invece il 20 febbraio, giorno del paziente uno a Codogno, ci siamo fatti trovare dal virus con le scorte di dispositivi di protezione insufficienti e abbiamo dovuto aspettare due settimane prima di avere i nuovi ventilatori e aumentare i posti di terapia intensiva. In quel lasso di tempo sono morte 600 persone. Però, si giustificano al ministero di Roberto Speranza, le decisioni sono state prese sulla base di quelle pagine senza generare ritardi.
Gli scenari ipotizzati nelle carte segrete che a gennaio vennero considerate fantascienza, erano terrificanti sul serio. Il peggiore aveva però una tempistica fin troppo ottimista: il picco era previsto dopo un anno dal primo caso. Si preparava ad affrontare un contagio lento. Purtroppo la realtà ha raccontato numeri ancora più da brivido, con un virus velocissimo capace di uccidere, nel periodo peggiore, 800 persone in un giorno. Dopo 5 mesi, il dossier ipotizzava mille pazienti ricoverati (la realtà racconta che quella cifra è stata raggiunta il 3 marzo), poi in 243 giorni si sarebbe arrivati a occupare il 75% delle terapie intensive. In quel momento al Paese per fronteggiare l'epidemia sarebbero serviti oltre 18mila posti letto, con la mobilitazione straordinaria di un numero di medici compreso tra 18 e 37mila a cui aggiungere altri 55mila infermieri di rinforzo.
Nonostante queste misure, in due anni si sarebbe arrivati a totalizzare 646mila casi di contagio, 133mila dei quali avrebbero richiesto il ricovero in terapia intensiva. Una prospettiva che a febbraio pareva irreale. I consulenti scientifici del ministero della Salute avevano fatto male i loro conti, soprattutto sul valore R0, la contagiosità del virus. Da lì la Caporetto delle scorse settimane.
Nei giorni in cui Di Maio parlava di «coronavairus», diceva di stare tranquilli e già sembrava chissà che bloccare i voli dalla Cina, il documento c'era già. E, almeno a Palazzo Chigi, ne erano ben informati.
Però le prime indicazioni alle regioni sono arrivate il primo marzo, quando in Lombardia i contagi erano già a quota 1.835 e i morti 52. Eppure quelle 40 pagine tenute sotto chiave contenevano già un'analisi della disponibilità di letti in terapia intensiva, di medici e operatori sanitari, per poi formulare le strategie da adottare per reclutare e formare il personale. C'erano anche i dettagli su come trasportare i contagiati, come sanificare gli ambienti, come monitorare l'evoluzione della risposta al coronavirus.
Un piano di battaglia completo di tabelle, cifre, progetti di riorganizzazione e di intervento: si sottolineava la necessità di individuare le strutture ospedaliere da riconvertire, la realizzazione di centri di riferimento regionali, la suddivisione in macroaree territoriali. Si parlava di ventilatori polmonari. E ancora della riduzione dell'attività chirurgica ordinaria. C'era tutto insomma. Ma in un cassetto.
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