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Pirlo, storia di un campione tre dita sopra tutti

La grandezza in un applauso. E New York ci ruba il Signor Calcio

Pirlo, storia di un campione tre dita sopra tutti

La grandezza di Pirlo è in un applauso. L'ultimo. A Berlino, prima della finale di Champions. Lettura delle formazioni. Curva del Barcellona. Comincia: Buffon, fischi; Lichtsteiner, fischi; Barzagli, fischi; Bonucci, fischi; Evra, fischi; Marchisio, fischi, Pirlo, applausi. Capito? Applausi, applausi, applausi. All'avversario, prima della partita più importante dell'anno. Non è una cosa normale.

Ecco, lascia l'Italia un giocatore così. Diverso, unico. Perché è talento, è classe, è genio, è semplicità, è semplicemente, il calcio. Va a New York e lo sapevamo già. Ma adesso è ufficiale, l'ha annunciato la Juventus e l'ha confermato lui: «Grazie», ha detto. «Mi servivano altri stimoli». Va in America a 36 anni, a chiudere una carriera che è soprattutto un manuale di come si gioca a pallone. Perché con lui conta questo, più di tutte le vittorie: Coppa del mondo, due Champions, sei scudetti, un mondiale per club, un Europeo under 21, due supercoppe europee, due coppe Italia, un torneo di Viareggio. Conta tutto, ma sopra ogni cosa conta il fatto di essere stato ciò che calcisticamente si avvicina di più alla perfezione. Per tocco, per intelligenza, per completezza, per tecnica.

Moderno, Pirlo. Di una modernità direttamente proporzionale alla bellezza. Perché è questa la chiave per capire chi e che cosa è stato: la certezza che si potesse educare la classe, che si potesse coltivare il genio. Perché Pirlo è il talento confezionato. Quello che si sviluppa nelle scuole calcio, quello che non cresce sulle strade, ma in un campo, con un allenatore, con un'idea, con la consapevolezza di essere utile, oltre che bello; di essere al servizio degli altri, prima che di se stessi.

Pirlo è e sarà sempre quello che prende la palla al minuto 118 di Germania-Italia, a Dortmund, il 4 luglio 2006: stop di petto, destro, sinistro, sinistro, tiro, deviato in corner. E subito dopo angolo, respinta, a lui: controllo di sinistro, poi destro, destro, destro, testa alta, mezzo tacco, mezzo interno dentro per Grosso. Senza guardare, perché la testa era girata dall'altra parte. Un corridoio che può vedere solo un essere umano diverso, solo un giocatore diverso. Il gol che ha spinto l'Italia in finale è suo quanto del terzino miracolato: Fabio ha calciato quello che Andrea ha inventato.

Quel tocco è l'educazione sentimentale di questo sport. Perché un altro, uno con i piedi suoi, quella palla l'avrebbe calciata in porta. Pirlo no, perché ha imparato che il risultato conta più della gloria, che un assist può valere quanto un gol. Pirlo è la dimostrazione che la classe è in quello che pensi, prima che in quello che fai. Che il calcio intelligente vince sul calcio dell'istinto. Ha cambiato modo di calciare le punizioni perché ha studiato: se colpisco la palla lì, solo con tre dita, in quel punto che la fa schizzare prima in alto e poi di botto in basso, fa uno zig-zag strano e imprendibile. Quel tiro l'ha inventato Juninho Pernanbucano, ma Pirlo l'ha portato in Italia e l'ha perfezionato: l'hanno chiamato «ascensore», poi «maledetta». La prima volta che calciò così fu a San Siro. C'era Pirlo e accanto a lui Gattuso, nel Milan. Gattuso stava parlando, mentre la palla era già piazzata. Quello niente: «Oh». Andrea aveva un dito sul labbro, come se qualcosa gli desse fastidio. Non stava ascoltando. Rino di nuovo: «Oh». L'altro zitto ancora: punizione, tre passi, tiro, gol. Allora il compagno lo guardò, stavolta senza parlare, ma facendo una smorfia col muso, tipo «mamma mia», e muovendo la mano a paletta, facendola roteare, come quando vuoi dire senza dirlo che non c'è niente da dire. Spettacolo. Poi negli spogliatoi: «Quando vedo giocare Pirlo, quando lo vedo col pallone tra i piedi, mi chiedo se io posso essere considerato davvero un calciatore».

L'hanno pensato in molti in questi vent'anni. Pirlo è stato l'idolo di molti e l'avversario rispettato di molti altri. Daniele De Rossi dice di non aver mai giocato con un centrocampista così bravo come lui, Xavi e Iniesta del Barcellona l'hanno più volte indicato come punto di riferimento estetico e tecnico. Molti l'hanno capito: Mazzone che a Brescia fu il primo a farlo giocare nella posizione di oggi, Ancelotti che nel Milan l'ha reso grande, Lippi che in Nazionale l'ha amato, perfino Allegri che alla fine, nella Juventus, l'ha tenuto da conto a differenza di quanto la vulgata dice abbia fatto al Milan. E però c'è anche chi non l'ha capito: è accaduto all'Inter che lo prese ragazzino e lo cedette al Milan in cambio di Guly.

L'hanno chiamato «Professore» e poi «Maestro». Perché è il simbolo di un'eleganza che non è soltanto estetica. È funzionale. È la bellezza che serve: né un tocco in meno, né soprattutto uno in più. «Ho sempre saputo di essere più bravo degli altri», ha detto in una recente intervista. Cresciuto per diventare qualcuno, con l'idea che il calcio fosse un lavoro, oltre che una passione. Qui c'è tutta la sua storia, l'inversione della retorica del talento che va liberato, della classe che nasce con te. Pirlo smentisce coi fatti, prima che con la sua voce. L'ha detto: non sarebbe stato quello che è se non fosse cresciuto in un'idea di calcio confezionato.

Perché tutti pensano che la porta girevole della vita sia stata retrocedere di venti metri, scendere da trequartista a regista. Vero, ma tutto ciò è potuto accadere perché ai tempi delle giovanili del Brescia aveva calibrato il suo gioco in funzione di un risultato collettivo e non di una medaglia individuale: non si torna indietro di venti metri se non ti hanno abituato a giocare per tutti, non ci si allontana dalla porta se non ti sei costruito un'identità che prescinde dalla giocata fine a se stessa. L'eleganza è altruismo interessato. È un servizio che rendi a te stesso e ai compagni. È prendere la palla e non guardarla, ma sapere sempre a chi darla. È toccare di prima, quando gli altri farebbero cinque o sei tocchi. È amare il pallone e per questo tenerlo il meno possibile. È un passaggio di due metri. È lanciare lungo, profondo, preciso che sa già dove arriverà il compagno che sta tagliando. È l'azione di Pirlo che porta all'assist per Di Natale in Spagna-Italia della fase a gironi dell'europeo 2012: palla sette metri dentro la metà campo dell'Italia, finta di fermarsi, controllo in movimento con l'interno destro a superare Busquets, controllo di sinistro, passaggio in profondità sempre di sinistro. Una giocata di sei secondi e mezzo, senza mai tenere gli occhi bassi e senza fare un tocco più del necessario. Perché questa è la magia: vai in porta, amico.

Ne ha mandati tanti in porta, Pirlo. Un giorno l'ha fatto con Roberto Baggio. Suo compagno, messo davanti a Van Der Saar con un lancio di 45 metri, accompagnato a terra da Roby con un tocco da fantascienza. Baggio era già Baggio, Pirlo non era ancora Pirlo. Ma il calcio era già calcio.

Come è sempre stato con lui, come sarà ancora con lui.

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