Nascoste, come quasi sempre accade in occasione dei referendum, nella oscura formula di rimando a commi e virgole, i sei quesiti che verranno sottoposti agli italiani avrebbero conseguenze precise: impedire la caccia al petrolio e al gas, poco o tanto che sia, nascosti sotto i fondali italiani. Basta alle trivellazioni. In una domenica della prossima primavera, prima che sui referendum istituzionali voluti da Matteo Renzi per ottenere l'imprimatur popolare alle sue riforme, gli italiani verranno chiamati alle urne per bloccare definitivamente le attività di ricerca e sfruttamento nelle acque territoriali che circondano la Penisola. Un divieto pressoché assoluto, che i referendari puntano a insaturare con l'abrogazione di alcuni passaggi di leggi approvate dai governi Monti e Renzi, in particolare il decreto sulle semplificazioni del 2012 e lo «Sblocca Italia» del 2014. L'intera galassia delle associazioni ambientaliste - da Greenpeace, a Legambiente, a Italia Nostra - è scesa in campo contro le ricerche in mare, trovando per strada la compagnia dei duri dei «comitati no-Triv», nuova incarnazione del movimento no-Tav e delle sue diverse filiazioni. E tra l'ala moderata e l'ala radicale del fronte già si colgono segnali di polemica, con i «duri» che diffidano le associazioni storiche dallo scendere a patti con la politica per trovare accordi legislativi in grado di evitare il ricorso al voto.Benché affollato di sigle, il movimento contro le trivellazioni non si è fidato a lanciarsi nella raccolta tra la cittadinanza del mezzo milione di firme necessarie per indire il referendum, così ha imboccato la scorciatoia prevista dalla legge: la presentazione dei quesiti referendari da parte di almeno 5 consigli regionali. La richiesta di referendum è stata portata nelle aule consiliari e ha visto il Paese significativamente spaccato in due: le regioni settentrionali interne, che sono quelle col fabbisogno energetico più alto sia per ragioni climatiche che produttive, e che sono anche quelle con minore affaccio sulle coste, hanno votato in prevalenza contro il referendum, che è stato invece fatto proprio da un folto gruppo di consigli regionali del sud. Alla fine, ad avanzare le proposte di abrogazione sono state Basilicata, Abruzzo, Marche, Campania, Puglia, Sardegna, Veneto, Liguria, Calabria e Molise. E venerdì scorso dalla Cassazione è arrivato il primo via libera ai referendum: i giudici hanno esaminato i sei quesiti e li hanno dichiarati tutti ammissibili. Ora solo il vaglio della Corte Costituzionale separa i referendum dalla fase operativa. Il sogno dei promotori sarebbe l'accoppiata con i referendum costituzionali, per garantirsi o quasi il raggiungimento del quorum. Ma appare tecnicamente difficile. E quindi si va verso una doppia tornata di chiamata alle urne. Sarebbe la terza volta, dopo il voto del 1993 per l'abolizione di alcuni ministeri (vittoria dei sì) e quello del 1996 sul federalismo (vittoria dei no)che gli italiani verrebbero chiamati alle urne su richiesta dei consigli regionali. Ma i sei quesiti approvati dalla Cassazione si muovono nel solco di altre consultazioni referendarie di stampo ecologista, quelle sul nucleare e sull'acqua pubblica. E pazienza se stavolta c'è una attività che si svolge per sua definizione lontana dai centri abitati, sottoposta (come nel caso delle cento piattaforme già attive ne mari italiani) a controlli rigidi, che fornisce al Paese energia a chilometro zero, o quasi.
E soprattutto che si svolge in una zona d'Italia, le acque territoriali, che per legge appartengono allo Stato, e su cui invece chiedono di avere il controllo le singole regioni, all'insegna del solito vecchio slogan: not in my backyard,« non nel mio giardino». In questo caso, «non davanti alla mia spiaggia».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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