Roma - Professor Antonio Baldassarre, presidente emerito della Consulta e firmatario del Manifesto dei costituzionalisti per il «No» al referendum, cosa pensa dell'appoggio esterno della Commissione Ue e quello interno politico-industriale al fronte renziano del «Sì»? C'è connessione fra instabilità politico-economica e consultazione referendaria?
«In questa campagna tutti hanno superato se stessi nell'enunciazione di affermazioni non corrispondenti al vero. E, tutto sommato, c'è un limite al pudore. La riforma costituzionale non ha nessuna rilevanza nell'immediato. Ad esempio, la dichiarazione del presidente della Confindustria Boccia secondo cui il No alla riforma precipiterebbe il Pil nel 2017 è assolutamente priva di senso. Prima che le riforme costituzionali producano i loro effetti ci vogliono almeno due o tre anni. E quindi dopo le elezioni del 2018».
Eppure tra flessibilità concessa dall'Europa per la manovra e referendum sembra esserci un corto circuito.
«Le concessioni su migranti e terremoto rappresentano una cifra non significativa rispetto a un debito record e a una spesa pubblica record. Questi sono problemi reali nei cui confronti la riforma costituzionale vale zero e non ha nessuna incidenza perché decidere di tagliare il debito e di diminuire spesa pubblica e pressione fiscale è solo una questione politica. Il problema è che tutti i governi cercano di giustificare la propria impotenza dicendo che è colpa delle istituzioni».
Si cerca anche di slegare il referendum dall'Italicum.
«La Consulta ha rinviato il giudizio sulla legge elettorale per non interferire con il voto referendario. Se non avesse avuto influenza, non avrebbe rinviato. Di questo non si può non tenere conto».
È vero che con il «sì» si risparmia sui costi della politica?
«Le istituzioni devono essere funzionali. La democrazia ha un suo costo. Estremizzando il ragionamento, si potrebbe proporre di eliminare il Parlamento per via delle spese connesse. Una dittatura costa, infatti, molto meno».
Qual è, secondo lei, un punto problematico della riforma Renzi?
«La riforma svuota i poteri delle autorità di controllo. In primo luogo, quella del presidente della Repubblica il quale da un lato verrà eletto su una maggioranza calibrata sul numero dei partecipanti al voto e non degli aventi diritto. Dall'altro lato rimane la norma costituzionale della messa in stato d'accusa del presidente che viene presa a maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune. Questo vuol dire che alla larga maggioranza determinata dall'Italicum è sufficiente aggiungere una ventina di senatori e si può metter in stato d'accusa il presidente della Repubblica. Si immagini cosa farà il capo dello Stato se dovesse esprimere dubbi di costituzionalità nei confronti di un governo che potrebbe, per ripicca, metterlo sotto accusa».
Il fronte del «No» è molto composito e le stesse aree politiche si scompongono. Il centrodestra non fa eccezione.
«L'irrilevanza politica è il rischio mortale che corre il centrodestra se continuerà a dividersi tra comitati per il Sì e per il No. Nel caso del Sì vincerebbe, infatti, Renzi e con il No Grillo. E il destino dell'attuale centrodestra resterebbe segnato per 10-20 anni se non di più. È una questione di matematica, ma il centrodestra fatica ad arrivarci».
Il «No» rischia di essere un paravento per i conservatori?
«Non c'è dubbio che una riforma sia
necessaria visto che l'Italia è cambiata molto dal 1948. Da questo a dire come Renzi e Napolitano che dopo quest'ultima non se ne faranno più ne passa. Che non si faranno più riforme in futuro lo può dire solo il Padreterno».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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