Chiamatelo «The Donald»
È l'uomo dell'anno e potrebbe diventare l'uomo di un'intera era americana e mondiale. Una zazzera color zenzero acuto che si sistema ogni mattina da sollo davanti allo specchio, una voce che passa dal sibilante al tonante, viso mobile da Muppet, mutante e mutevole. Nella testa un'unica certezza: «I'm the Donald». Che fosse un tipo interessante lo pensai come ogni viaggiatore appena arrivato a New York quando va a spasso sulla Fifth Avenue e si trova di colpo davanti a quel meteorite d'oro massiccio squadrato col laser che è la Trump Tower. Il protagonista della primavera e dell'estate politica del 2016 è infatti un real estate developer, espressione che non si può sprezzantemente ridurre a «palazzinaro» come fanno i giornali italiani per far capire che un uomo di quel genere non può che essere un gangster dell'edilizia. Donald Trump non è riconducibile ad alcuno stereotipo. Quest'anno è stato bollato immediatamente come «fascista» quando ha deciso di correre in proprio, con i suoi soldi, nelle file del Partito Repubblicano. Anche se il Partito Repubblicano non è il suo partito. Trump semmai era un democratico e centinaia di fotografie glamour lo ritraggono alle serate di gala in abito da sera e col calice di champagne insieme alla sua attuale arci-nemica, Hillary Rodham Clinton, e con suo marito, l'ex presidente Bill, che attualmente è il suo coach, l'allenatore. Erano tutti una famiglia di gente scintillante, da prima pagina dei tabloid ed è noto che Donald ha finanziato personalmente Hillary nella precedente campagna elettorale. La crème de la crème, l'élite dell'élite.
Finché «The Donald» - come si fa chiamare - non si fece le ossa come intrattenitore televisivo, un uomo di spettacolo capace di capire, di intuire, di immaginare. E si accorse prima di ogni altro che l'America ha il motore rotto. C'è qualcosa che non va e questo qualcosa la sta trascinando verso un futuro incerto.
Storia di una cavalcata scorretta
Tentare di essere sotto il ciuffo di Donald Trump, immaginare che cosa esattamente gli passi per la testa può essere un esercizio psicologico utile per la sceneggiatura di un film. Ma la questione che apre alla vigilia delle convention e del voto di novembre, è un'altra: per quale motivo quest'uomo è stato seguito prima da pochi e poi quasi da tutti gli elettori repubblicani che si sono registrati? Nel momento in cui scriviamo le previsioni danno Hillary Clinton vincente con un risicato due per cento, troppo poco per dire qualcosa.
Ma, chiunque vinca questa corsa elettorale, resta il problema principale: perché? Provo a dare le risposte che mi sono state suggerite dai fatti. Appena Donald Trump si è profilato come candidato reale e non virtuale, la sinistra mediatica americana - giornali e televisioni, ma anche web - ha deciso di spezzargli le gambe. Era già accaduto con Ronald Reagan, sarebbe accaduto con George W.Bush e da noi con Berlusconi. Si tratta sempre di personaggi che per prima cosa vengono marchiati come «populisti», cioè politici che farebbero appello al ventre irragionevole e rabbioso delle folle, anziché alla loro mente, alla loro storia.
Ma per Trump il cammino era più complesso ancora: non aveva contro soltanto le sinistre americane che già parlavano di lui con orrore e allargando sconsolatamente le braccia - «Oh my God!» -, ma pestava i piedi a tutta la destra conservatrice americana, che non è meno snob della sinistra. I vecchi conservatori con un curriculum patrizio come Jeb Bush, fratello e figlio di due presidenti, consideravano un loro diritto di casta correre per la Casa Bianca. Trump era l'outsider, l'uomo piombato sulla scena senza che nessuno lo avesse invitato e talmente ricco da non aver bisogno, almeno all'inizio, di forti sponsorizzazioni. Nessuno ha spinto Trump, tranne lui stesso. Ha gettato sul tavolo un miliardo di dollari e ha comprato le fiches per stare al tavolo da gioco, mentre i giocatori veri, quelli di destra come Rubio e Cruz, e quelli di sinistra come la Clinton, ricevevano fondi a profusione attraverso il sistema dei Pac, che costituisce il punto più debole e meno onorevole della democrazia americana.
La corsa alla Casa Bianca, ogni tratto di quella corsa, funziona come la Formula Uno. Fiumi di denaro, un grande pilota, ma dietro di lui un team che sappia cambiare le gomme. Stavolta, nel 2016, per la prima volta il sistema dei Pac è stato messo alla gogna negli Stati Uniti da due concorrenti di matrice opposta: Trump per la destra e Bernie Sanders per la sinistra. Barack Obama, in visita a Cuba, fu apostrofato con sarcasmo da Raúl Castro: «Lei crede che la democrazia significhi comprare i candidati a colpi di milioni di dollari e far vincere quello che ci fa più comodo?». Obama farfugliò e si rifugiò sul generico. Ma quello era il punto: non sei candidato in America se qualche grande industria miliardaria non scommette su di te. Inoltre, se vai avanti soltanto con le tue risorse non sei un buon candidato lo stesso perché la tradizione vuole che il futuro presidente possa vantare un portafoglio molto gonfio di contributi che dimostrano il consenso di cui gode, oltre che i voti popolari nelle primarie e una buona stampa, è il caso di dirlo, presso giornali e televisioni.
Trump è un gaffeur nato. Un po' non si controlla, un po' fa delle sue gaffe un elemento di forza politica. Ma le sue gaffe sono sempre controverse e alla fine riesce a dimostrare il proprio candore. Poiché alla rete Fox News, di orientamento repubblicano, aveva trovato all'inizio della sua campagna delle difficoltà con la giornalista Megyn Kelly che dirigeva i dibattiti televisivi, decise di attaccarla personalmente con allusioni che furono interpretate come un'accusa, nei confronti della Kelly, di essere sopraffatta dai fumi ormonali delle mestruazioni. Disse: «Quella donna mi odia. Mi guarda con occhi iniettati di sangue. E non soltanto gli occhi. Sembra tutta iniettata di sangue». Apriti cielo. Gli ingiunsero di scusarsi, prostrarsi, dire che era stato un errore. Lui negò tutto: «Ho detto che aveva uno sguardo sanguigno e ostile nei miei confronti. Non mi scuso di nulla». Aggiunse che soltanto un maniaco sessuale, un deviato mentale avrebbe potuto cogliere un'allusione al ciclo mestruale nelle sue parole. Finì che Fox News mantenne la Kelly a dirigere il successivo dibattito e Trump non partecipò. Ma il vero epilogo fu quando la Kelly chiese a Trump di fare pace, Donald la invitò nella sua torre dorata di New York e ne uscì una delle più candide e oneste interviste di tutta la campagna. Senza alcuna esitazione attaccò Papa Francesco, che a sua volta lo attaccava per il progetto di costruire un muro di separazione col Messico: «Vi assicuro che se un giorno il Vaticano fosse attaccato dall'Isis, Papa Francesco si augurerebbe soltanto che fossi io il presidente americano». Francesco e Donald si trovarono sui due versanti della stessa frontiera a El Paso. Tutte le sue dichiarazioni sull'emigrazione clandestina messicana furono forzate dalla stampa. Lui diceva che attraverso i varchi di una frontiera bucata passano centinaia di migliaia di criminali, sfruttatori e spacciatori di droga, e i giornali scrivevano che Trump aveva chiamato tutti i messicani criminali e spacciatori. Per come è fatto il suo carattere, decise di non perdere troppo tempo sui dettagli. Ripeteva che nelle sue aziende c'erano esclusivamente lavoratori messicani con regolari permessi di soggiorno di cui era soddisfattissimo, e si vedeva tornare indietro l'accusa di razzismo allo stato puro.
Stessa partita con le donne: Trump ha intere aziende dirette da donne o con le donne in posizioni di massima responsabilità. Ma il cliché doveva andare avanti ed essere nutrito. Non sappiamo veramente se abbia fatto un piano tattico o no, ma sappiamo come ha reagito: infischiandosene totalmente e, anzi, rincarando le dosi, man mano che vedeva crescere non già l'elettorato repubblicano classico, ma il «suo» elettorato, fatto non di conservatori all'inglese, ma di red neck, agricoltori col collo rosso di sole; di blue collar, i «Cipputi» americani con la tuta blu da operaio, e poi tutto il ceto medio sbandato e spesso poco acculturato, l'americano delle campagne e delle officine, una specie di sottoproletariato senza punti di forza e sempre meno protetto da una identità. Perché l'identità americana come la conoscevamo fino alla fine degli anni Novanta, fino all'attacco dell'11 settembre 2001, si è liquefatta, raggrumata, si è innestata e ibridata con nuove venature che prima non facevano parte della società americana.
Trump ha visto il suo elettorato crescergli sotto gli occhi come un miracolo.
Si congratulava con se stesso per l'intuito che lo guidava nel rivolgersi a quella gente che lo vedeva come il messia di una nuova era possibile («rendere l'America di nuovo grande»), ma in fondo non sapeva probabilmente neanche lui quali ingredienti stesse mescolando nel suo pentolone. Il prodotto era notevole, ma - ecco un punto importante - non era di destra.(1 - continua)
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