Mercoledì mattina, qualche ora prima che Matteo Renzi lanciasse la sfida a Giuseppe Conte nell'aula del Senato, nel corridoio dei passi perduti di Montecitorio, potevi notare Maria Elena Boschi intrattenersi con Edoardo Rixi, uno dei fedelissimi di Matteo Salvini, nonché esperto del Carroccio per i trasporti. E, caso solo apparentemente strano, se parlavi con Rixi un attimo dopo, sentivi ragionamenti che sono di casa tra i renziani, ma soprattutto echeggiare argomenti che l'ex premier in singolar tenzone con l'attuale, avrebbe usato qualche ora dopo a Palazzo Madama: «Più lasci andare avanti Conte e più lui ha il tempo di costruire il suo partito. La task-force per il Recovery fund potrebbe essergli funzionale allo scopo. E se nasce un altro partito di centro, naturalmente, Italia Viva sparisce. Figuriamoci in un paese come questo in cui la stampa è governata da Casalino del Grande Fratello».
Ieri, nel day after dello «scontro» al Senato, le riflessioni di Rixi, degne di un romanzo di «fantapolitica», sono riapparse sulla bocca di un renziano con la testa sulle spalle come Gennaro Migliore, quasi a coronare la tesi che i due Matteo sono tornati ad essere dei «carissimi nemici». Ragionamento di Migliore: «Conte sta forzando per avere quei sei manager nella task-force perché nella sua mente potrebbero essere l'embrione del suo partito, visto che nei prossimi mesi godrebbero di un forte impatto mediatico. Come Arcuri che potrebbe essere della partita. Tutta gente che potrebbe preparagli la discesa in campo con lo slogan: gli altri litigavano e noi salvavamo il Paese».
Ora l'importante non è che questi tesi siano fondate o meno, ma il fatto che alberghino in un pezzo di maggioranza come in un pezzo di opposizione. Un altro indizio su cui ragionare è che ieri al Senato sia la senatrice Rauti, sia lo steso Salvini si sono complimentati nell'aula con Renzi dopo il suo intervento. Ed ancora, altro indizio, che in ogni angolo del Palazzo giri la voce di un ritorno di fiamma. «I due Mattei sono tornati a parlarsi», confida con l'aria di chi la sa lunga la forzista dissidente Michaela Biancofiore, mentre Enrico Costa dall'osservatorio della nuova sede dei fan di Calenda in corso Vittorio Emanuele a Roma, conferma: «Tutti sono incazzati per l'ipotesi del nuovo partito di Conte». Ma non basta ennesimo indizio - mai come in questa occasione l'opposizione si è data da fare affinché sui tabelloni elettronici della votazione sulla riforma del Mes, apparisse chiaro che il governo non aveva ottenuto la maggioranza assoluta in nessuna delle due Camere. Per l'obiettivo Salvini aveva minacciato tutti i parlamentari del centrodestra che chi avesse votato a favore sarebbe stato messo automaticamente fuori dalla coalizione. E addirittura il Cav, per tenere in riga i più dubbiosi sulla bontà della sua linea, aveva sfoderato, spazientito, un linguaggio ruvido che non è proprio il suo: «Io sono Berlusconi, io comando, voi obbedite». Perché tutto questo? «L'importante confida Rixi il giorno dopo la battaglia era dare l'immagine di un Conte isolato, impedendogli di avere la sponda di qualche pezzo di Forza Italia che avrebbe tolto forza contrattuale a Renzi. È quello che non hanno capito quei 5-6 deputati azzurri che hanno fatto le bizze».
Al solito due indizi fanno una prova, ma qui di indizi ce ne sono a bizzeffe. E bisogna partire da qui per capire i contorni del duello tra l'ex premier e l'attuale, lo scopo e i suoi sviluppi. Mercoledì sera Renzi è stato chiaro con i suoi: «Noi non torneremo indietro. Questo è sicuro. È Conte che deve rimangiarsi l'emendamento che doveva introdurre la task force per il Recovery fund e quello sulla Fondazione per cyber-sicurezza. Se lo farà riavrà la nostra fiducia». A sentire gli ambasciatori che fanno la spola tra i due, quindi, Conte avrebbe già ingoiato i due rospi. Anzi, per il numero due del Mef, Antonio Misiani, il «caso» è tutta un'invenzione mediatica di Renzi. «Sono due proposte spiegava ieri con un pizzico di ironia che erano già state stralciate dalla legge di bilancio. Renzi è un grande, perché è riuscito ad ingaggiare un duello su cose che già ha».
Allora tutto finito? No perché per un motivo o per l'altro, l'80% del Parlamento (compreso Giggino Di Maio) è interessato a ridimensionare la figura di Conte e il suo peso nelle decisioni sui fondi europei.
Questo è il punto: il cesarismo di Giuseppi è morto prima di nascere. E il sogno di molti sarebbe quello di riportare il premier al suo esordio in Parlamento, con due attori diversi nei ruoli di vicepremier, ma con un'identica sceneggiatura e con l'immagine cult di Conte che chiede a Giggino: «Ma questo lo posso dire o no?». E se proprio non sarà così, il premier dovrà stamparsi nella mente per il futuro la battuta spietata del piddino Graziano Delrio: «Conte non è arrivato a Palazzo Chigi per grazia ricevuta ma perché lo hanno messo lì i partiti, perché lo hanno voluto lì Zingaretti e Di Maio».
Ecco perché scantonata la legge di bilancio, il premier a gennaio dovrà ragionare sulle istanze dei partiti della sua maggioranza, a cominciare da una possibile crisi-rimpasto. Una condizione che fa intuire alla testa d'uovo della Lega, Giancarlo Giorgetti, che il futuro di Conte sarà molto tormentato. «Quello del premier è la sua diagnosi è un caso di collasso. Non si è schiantato per ora. Andrà avanti ancora per un po', ma poi...!?».
Ma poi, da qualche settimana tutto il Parlamento è interessato alle vicende personali del premier: sulla famosa cena con la compagna in un ristorante romano in pieno divieto dettato da un dpcm contiano, giacciono tre interrogazioni al Senato; per non parlare della norma contenuta nel decreto rilancio firmato dal premier, che ha cancellato due giorni fa una condanna patteggiata dal suocero per non aver pagato per 5 anni le tasse di soggiorno del suo Hotel. Un tipico colpo di spugna. Sono tutti segnali inequivocabili di un declino. Ma, soprattutto, c'è la novità del nuovo atteggiamento della Lega, che ha abbandonato finalmente lo schema del «muro contro muro», funzionale al premier per compattare la sua maggioranza. «Basta con questa storia delle elezioni anticipate osserva Lorenzo Fontana che serve solo a rimettere insieme la maggioranza attorno a Conte. Giochiamoci invece la partita per il Quirinale in questo Parlamento. Anche perché abbiamo ottime carte». Per cui se a gennaio qualcuno vorrà allargare il gioco all'opposizione, in un modo o nell'altro, questa volta troverà degli interlocutori attenti. «La verità teorizza il solito Rixi è che di fronte a una grande emergenza, una democrazia allargherebbe quasi per un riflesso condizionato la base della maggioranza. Come chiese il Re di Inghilterra Giorgio VI a Churchill durante la seconda guerra mondiale. Quelli che non lo fanno sono i regimi autoritari, come Mussolini. Anche perché se non lo fai sei responsabile di non aver dato al Parlamento e al Paese - la capacità di reagire all'emergenza.
Solo che per far questo devi essere un leader. Devi avere pathos. Basta paragonare i discorsi di Conte con la Merkel per comprendere che distanza siderale li divide. E se una tedesca appare più umana di noi, significa davvero che siamo alla frutta».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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