Del Viscovo (Luiss): «L'allarme dei sindacati? Dicano cosa hanno fatto per lo sviluppo delle imprese di questo Paese»

Logiche di campanile a parte, per Pirelli non cambia molto avere la Cina come primo socio, perché «l'italianità non si difende con la proprietà, ma con la produzione, l' output , che deve essere competitivo», taglia corto Pier Luigi del Viscovo, docente di Sistemi di distribuzione e vendita alla Luiss di Roma. Certo l'eclisse del capitalismo dei salotti, organizzatoe finanziato per decenni da Mediobanca, potrebbe favorire la grande avanzata degli stranieri in Piazza Affari ma - avverte lo studioso - «non si può auspicare che il nostro Paese sia attrattivo per gli investimenti stranieri e, quando questo accade, denunciare una lesa “italianità”».

Professor del Viscovo, Pirelli è un simbolo della nostra rinascita industriale, che cosa risponde a chi oggi rimpiange la mancanza di un'alternativa nazionale a ChemChina?

«L'Italia è inserita in un contesto globale e noi dobbiamo ragionare in termini di Europa. È difficile pensare che la Penisola, da sola, possa esprimere un elevato numero di gruppi industriali sulla scena mondiale. Qualcuno c'è - come Luxottica, Ferrero o Barilla - ma dobbiamo tenere conto che siamo un Paese piccolo dal punto di vista del mercato, ancorché membro del G8».

Eppure i sindacati hanno già urlato all'«assalto giallo» e invocato un intervento del governo Renzi.

«Quello degli pneumatici non è un settore strategico per il Paese, diversamente da energia, grandi infrastrutture o sistema bancario. Al sindacato fa comodo avere un giocattolo sul quale la politica possa intervenire. Credo, però, che dovrebbe interrogarsi se nell'arco della sua attività abbia rafforzato o indebolito le imprese, indicando anche quando e come lo abbia fatto».

Per l'Italia è quindi indifferente che ora il perno di Pirelli sia ChemChina anziché una compagine nazionale supportata dalle banche, o magari dalla Cassa depositi ?

«Si, è lo stesso. Mi permetta un esempio: tutte le grandi case automobilistiche posizionano il proprio centro stile, cioè la parte di ricerca e sviluppo chiamata a interpretare i gusti dei consumatori, non in base alla loro nazionalità ma dove c'è il necessario humus. L'Italia ha delle avanguardie, delle abilità superiori a molti altri Stati, ma spesso non è in grado di valorizzarle».

In un mondo globalizzato, che cosa resterà davvero made in Italy?

«L'Italia tiene e terrà solo quelle attività nelle quali è più brava, cioè efficace e più conveniente, ovvero efficiente. Oggi il Paese ha un numero di multinazionali in linea con la sua forza nello scacchiere economico globale».

Ma ci sono Paesi, come la Francia, molto più bravi a fare sistema?

«Dobbiamo considerare almeno due aspetti. Primo: la nostra struttura imprenditoriale è, per carattere, individualista e poco incline alla creazione di grandi gruppi. Secondo: la Francia all'inizio del '900 era già una nazione da mille anni. L'Italia, invece, sarebbe stata ancora per decenni un Paese a sovranità limitata. Per 30 anni questo Paese ha seguito un modello di insediamento industriale nel Sud, ritendo che bastasse la proprietà perché un'impresa funzionasse. Poi si è visto che non era così: come dimostra la chiusura della Fiat in Sicilia, dove non aveva alcun senso logistico produrre auto».

Come valuta dal punto di vista industriale, l'asse Pirelli-ChemChina?

«La scelta di Tronchetti Provera è ben ragionata e motivata. Il previsto sdoppiamento dei destini tra la produzione retail (pneumatici per auto e moto) e quella industrial , è una mossa congrua con le dinamiche del settore».

L'indotto finirà sotto pressione?

«I fornitori avranno un interlocutore più grande e con maggiori capacità di guardare all'estero. Ci saranno problemi per i deboli e opportunità per i forti, ma questo è darwinismo.

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