In via Quaranta insegna il «maestro» del terrore

In via Quaranta insegna il «maestro» del terrore

Gian Marco Chiocci

da Roma

Fossero solo questioni di agibilità. Il problema vero dell’istituto scolastico di via Quaranta a Milano, chiuso dal Comune di Milano, sembra essere quello degli insegnanti laureati in integralismo e terrorismo. Note d’intelligence e indagini del Servizio centrale operativo della polizia tratteggiano così l’identikit della «scuola del terrore» frequentata da oltre 500 alunni, ognuno dei quali invitato a pagare una retta mensile di oltre 100 euro al mese. Per prima cosa si fa presente che l’attività didattica, attualmente guidata dall’egiziano Rezk Mohamed Aly già indagato e rinviato a giudizio nell’operazione Sfinge del 1995, prevedrebbe l’impiego di alcuni professori noti proprio per le loro acclarate posizione integraliste. Gli apparati dei Servizi e le forze dell’ordine si soffermano su due nomi: l’egiziano M. R., elemento di spicco della dirigenza dell’Ici di Milano, indagato con Aly nella Sfinge, e il somalo S. M. S. A. «sospettato di essere contiguo al gruppo terroristico somalo Al Ittihad al Islami».
E proprio ficcando il naso fra i banchi scolastici del plesso Al Fagr Al Islami si è finito per incrociare gli accertamenti con quelli di un’altra indagine «gemella», che punta a stanare un presunto fiancheggiatore dell’organizzazione filoqaidista che ha la sua centrale nel Corno d’Africa e le sue basi italiane disseminate fra Milano, Torino, Roma, Lucca, Firenze e Monza. Il nome non si può fare, ma nell’ambiente è conosciuto come «il broker». Lavorando sotto traccia nell’ambiente più radicale della comunità somala in Lombardia, i poliziotti hanno finito per concentrare i loro sforzi su S. M. S. A., insegnante dell’istituto arabo di via Quaranta, ribattezzato «il maestro». Gli accertamenti sono iniziati un anno fa, allorché su segnalazione dei servizi segreti militari gli agenti hanno focalizzato il loro interesse su un quarantenne di Mogadiscio già coinvolto nelle inchieste Al Mohajiroun (perché in contatto con due sospetti militanti di una formazione salafita algerina) e nelle investigazioni avviate nel 2003 sulla cosiddetta rete Mera’i.
I legami tra l’«insegnante» di via Quaranta e il «broker» sospettato di riciclare dollari per Bin Laden, partirebbero da molto lontano. Da quando, cioè, il «broker» residente da anni a Milano, diviene il catalizzatore di un importante ramo finanziario che si occupa di smistare gli ingenti risparmi degli emigranti del Corno d’Africa in Europa attraverso l’arcaico sistema «hawala», un circuito extrabancario che non lascia traccia, che viaggia on line, che si basa sull’anonimato e il passaparola. Il timore dei servizi segreti, e delle forze dell’ordine che sugli input degli 007 di Forte Braschi svolgono complicati approfondimenti, è che quel canale serva in realtà a finanziare le cellule di Hassan Dahir Aweys e Hassan Turki, i signori del terrore di Al Ittihad al Islami alleati di Al Qaida nel triangolo Somalia, Yemen, Eritrea.
Il «broker» è un tipo sveglio. Guardingo. Che «all’anagrafe - scrive lo Sco - risulta depennato per irreperibilità nel 2001», ma che alcune «fonti» della polizia localizzano in un phone center non distante da piazzale Loreto. Per il coordinamento delle sue attività in Lombardia - sempre stando alle analisi della polizia - il «boker» si avvarrebbe, per l’appunto, dell’insegnante di via Quaranta che curerebbe «l’aspetto religioso» dell’organizzazione diretta da altri due connazionali: uno addetto al «ramo politico», l’altro alla «branca economica». Quest’ultimo sarebbe al centro di un vero e proprio intrigo. Un’informativa riferisce la «convinzione diffusa» all’interno della comunità somala che dietro lo sportello lombardo di una nota società internazionale del Corno d’Africa («attenzionata» da svariate agenzie di intelligence occidentali) il broker «sia impegnato nella movimentazione di denaro verso l’estero per conto di una non meglio precisata finanziaria legata a una organizzazione terroristica di matrice islamica».

Un’altra nota riservata fa risalire a lui, e di conseguenza all’intera scala gerarchica della connection somala, «il punto di riferimento per i somali che giungono clandestinamente in Italia e per quelli che si allontanano dai centri di accoglienza».

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