Quell’alleanza impossibile fra i «tre tenori»

RomaC’era una volta un Paese strano, dove chi aveva due gambe ne voleva una terza. Dove se non funzionavano due poli, si sperava nel terzo. Dove se due non si mettevano d’accordo, si pendeva dalle labbra del terzo.
In questo Paese il tre era un numero perfetto. Uno più uno più uno era sintomo di forza al cubo. Poi arrivarono tre «maghi» d’Oriente: Gianfranco Rutelli, Pier Ferdinando Fini, Francesco Casini - forse i nomi non erano quelli o erano abbastanza confusi, ma nessuno ci fece caso. D’altronde i loro discorsi, a detta dei seguaci, erano «sovrapponibili». Così i discorsi, e le ambizioni dei tre. Ognuno dei quali recava con sé un dono, al popolo di quel Paese strambo. Pier Ferdinando l’incenso, e sì che quel Paese ospitava il capo della Chiesa cattolica. Francesco la mirra, nonostante nessuno avesse mai saputo bene che cosa fosse. Gianfranco l’oro, e su quello concordavano tutti.
Il loro cammino, visto con il senno del poi, era stato tutto una «convergenza parallela», secondo una vecchia visione di un veggente del primo evo. Ma ora si trattava di andare ben al di là di quella profezia. Occorreva precipitarsi verso la grotta comune: una mangiatoia che li contenesse tutti. Che fu nominata, per rispetto alle tradizioni di quel popolo, «terzo polo».
La gente all’inizio sbalordì, immaginando un magnetismo all’altezza dell’equatore, e si chiese se non avrebbe creato turbative, maremoti e confusione in eccesso. E sì che alla confusione, quel Paese, c’era abituato. Ma poi i più saggi rammentarono che una sera d’estate, tra le macerie dell’antico impero, tre tenori celebri, giunti in affanno alle soglie di un inevitabile declino, ebbero un’idea formidabile. Mettersi assieme: unire le voci non più all’altezza dei tempi d’oro così da poter reggere un intero concerto. I tre grandi - si chiamavano Pavarotti, Carreras, Domingo -, grazie a quella brillante invenzione di marketing si assicurarono un successo senza precedenti. Mascherarono acciacchi e défaillances, superarono il momento difficile.
Uno più uno più uno. Quello che sembrava potenza al cubo, dietro - anzi, dentro - nascondeva in realtà un buco, una debolezza, una verità. I numeri andavano letti correttamente: un terzo più un terzo più un terzo, totale: uno. I tre «maghi», in cuor loro, lo sapevano bene. Francesco, che recava l’oscura mirra, aveva preso più batoste di un pugile suonato. Era rintanato in un alveare (i compatrioti lo chiamavano «Api»), assieme ad altri, pochi, senza fissa dimora. In dote, nel trio, non portava che loro: altro che seguaci. Ma il paradosso era che, ai tempi belli, avversava il re dell’oro, e l’aveva battuto. Poi s’era montato la testa, aveva fatto fuoco e fiamme come nella burrascosa gioventù, ma era finito miseramente a inseguire ogni poltrona gli capitasse a tiro.
Il re dell’incenso, Pier Ferdinando, aveva vissuto invece tutta la vita all’inseguimento di una chimera di cui aveva sentito dagli avi: il centro. Abitava in centro, posteggiava la macchina in pieno centro, aveva sposato una ricca ereditiera del centro, che possedeva tanti, centralissimi palazzi. In centro era anche il suo centro di gravità: il centro della cristianità. Accortosi nell’incedere delle stagioni che il suo sogno stava svanendo, era andato a intendersela con il re della mirra, che pure era stato avversario feroce del Vaticano. Non mancando, da tempo, di convertirsi, pur di sedere in poltrona. Di lui non si fidava, infatti, Pier Ferdinando, e attendeva paziente che il suo vecchio avversario di corte, Gianfranco, si stancasse. Aveva perciò cambiato nome al suo piccolo esercito - circa il 6 per cento delle forze -, chiamandolo «della nazione».
Nasceva duce dei nazionalisti, infatti, il re dell’oro. Quel Gianfranco che per lunghi anni s’era roso anche lui nell’attesa. Afflitto e malinconico, un giorno aveva incontrato la sua bella.

Per lei aveva deciso di mutar vita: comprò casa, sistemò famiglia, imbracciò l’armi. Ed ecco che ora veniva con gli altri due, ripudiati i vecchi sodali del regno, e s’arroccava sul monte Citorio. No, è un errore: forse il monte si chiamava Carlo. E qui, purtroppo, la storia andò in frantumi.

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