La liturgia ha la sua importanza. Ma un conto è applicarla alle cose di Dio, come fanno i preti, e un conto è applicarla alle cose del mondo, come fanno i magistrati. La liturgia riguarda la religione. La giustizia è una religione? Per i fanatici, forse. Per le persone di buon senso trattasi di un esercizio molto umano e molto terreno, ad alto rischio di fallacia. Solo l’ex magistrato Oscar Luigi Scalfaro giunse a dire che «la toga non è sulle spalle, è sull’anima: io stesso non me la sono tolta mai», affermazione tanto più pericolosa se si considera che in quel momento (6 dicembre 1994) era il presidente della Repubblica e dunque il supremo garante della separazione dei poteri sancita dalla Costituzione, sulla quale si fonda lo Stato.
Non si capisce pertanto come mai a tutte le latitudini gli uomini provvisoriamente deputati ad amministrare la giustizia sentano il bisogno d’indossare toghe, ermellini o parrucche. Mi si obietterà che i docenti universitari non sono da meno. Obiezione accolta. Ma quelli, al massimo, hanno il potere di metterti un 18 sul libretto, mica di privarti a vita della libertà.
Magari non sarà stato istituzionalmente molto corretto che il presidente del Consiglio abbia sbuffato dai microfoni di una radio: «Devo andare all’inaugurazione dell’anno giudiziario: due ore sottratte all’attività di governo», però lo capisco. Già la ricorrenza in sé mi ricorda la perentoria constatazione con cui il mio insegnante di religione alle medie, don Augusto Cavazzola, salutava il ritorno in classe dopo le vacanze natalizie: «Ogni anno che passa, passa un anno». Non risulta che nella notte di San Silvestro i magistrati facciano un falò dei procedimenti pendenti. Dunque come si fa a inaugurare a ogni gennaio un evento che per il povero cittadino si trascinerà nella migliore delle ipotesi dai quattro agli otto anni? Che senso ha celebrare in pompa magna un’attività che contempla un’attesa media di 485 giorni per l’indagine preliminare, di 35 mesi per il processo di primo grado, di 65 mesi per l’appello?
E poi i paramenti. Ma li avete osservati bene? Altro che il piviale: toga di velluto rosso orlata di pelo d’ermellino, papillon bianco, tocco con quadruplice fregio aureo, catene e pompon dorati. Il procuratore generale della Cassazione, Francesco Favara, indossava addirittura candidi guanti di raso, manco stesse per esibirsi al café chantant. Si dirà: antiche tradizioni. Ma ho notato che sia lui sia il presidente della Cassazione, Nicola Marvulli, nell’atto di ricevere il capo dello Stato erano già bell’e microfonati, cioè entrambi avevano appuntato, su quella specie di bavaglino di pizzo che gli pendeva dal collo, un minuscolo amplificatore per la voce, senza fili, come le veline. Si vede che la modernità non gli dispiace.
Eppure, a leggere La Stampa, pare che all’inaugurazione dell’anno giudiziario si sia «sentita nell’aria un’eco di nostalgia dei tempi che furono»: «Sua eccellenza Nicola Marvulli, classe 1931, primo presidente di Cassazione, nell’aggiustarsi l’ermellino alla fine l’ha detta tutta: “Eh, la giustizia più non gode dell’antico prestigio, quello che era il prestigio della casta”. Casta in senso buono, per carità», s’è affrettato a precisare il cronista Francesco Grignetti (sarà l’esegeta ufficiale del verbo marvulliano?). L’avrà anche detto in senso buono, però rilevo che «casta» sul vocabolario ha solo tre significati, il primo negativo, il secondo spregiativo e il terzo zoologico. Dovendo escludere che sua eccellenza Marvulli abbia inteso definire «insetti sociali» i suoi illustri colleghi, sorprende molto che a non saper fare buon uso delle parole sia proprio il primo presidente di quella Cassazione che ha condannato il «sottinteso sapiente», gli «accostamenti suggestionanti» e gli altri «subdoli espedienti» usati dai giornalisti, incluse le virgolette (oddio, ne ho appena scritte sei).
Molte altre cose ha affermato – senza guanti, sia detto a suo onore – il presidente Marvulli nella Relazione sull’attività Giudiziaria nell’anno 2005 (testuale, con la «g» maiuscola). Per esempio questa: «Rispetto a tutti gli altri Paesi, in Italia disponiamo del maggior numero di giudici e, ciò nonostante, conserviamo il primato del maggior tempo nella definizione dei processi». E questa: «Il pluralismo è una ricchezza del nostro autogoverno, ma esso fallisce il suo compito nel momento in cui alla virtù dell’obiettività si sostituisce la solidarietà ideologica». E quest’altra: «Non sempre abbiamo saputo liberarci da condizionamenti correntizi che mal si conciliano con l’indipendenza e l’autonomia della magistratura». Ma di esse non v’era traccia nei titoli dei giornali. A riprova dell’assoluta inutilità di questa liturgia.
ARROSSAMENTI. Da qualche tempo il presidente della Repubblica è sempre irritato. Di solito ce lo notifica attraverso il Corriere della Sera. Martedì scorso, per esempio, «l’imperturbabilità di Gandhi» attribuita all’inquilino del Quirinale non riusciva a cancellare «l’irritazione» di Carlo Azeglio Ciampi: un caso di sdoppiamento della personalità. Anche il 25 gennaio era irritato («dalla disdetta dell’accordo sullo scioglimento delle Camere»). Il 24 pure («per una sfida che rischia di sgangherarsi sino alla rappresaglia»). Il 22 era «irritato con Vienna». Il 21 l’irritazione filtrava direttamente dal Colle, un problema geologico allarmante, anche perché s’accompagnava al bradisismo di un altro titolo: «Il Quirinale irritato non vuole arretrare».
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it
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