Cultura e Spettacoli

«Quello scarpone che mi salvò la vita»

Qui non riposano i «ragazzi del ’99». Non possono riposare, né da vivi né da morti. È questa, la loro Caporetto, la perenne condanna alla memoria che li tiene svegli ben oltre la soglia dei cent’anni. Nonni e bisnonni di un’Italia allora (e ancora) malcerta sulle gambe, frugano nel baule della storia personale diventata Storia nazionale, anzi mondiale come la guerra che combatterono. E non faticano a riannodare il filo di quella profonda smagliatura sul fronte. Caporetto, ovvero «la» sconfitta.
«Il 24 ottobre - narra Delfino Borroni, nato il 28 agosto 1898 a Turago Bordone, presso la Certosa di Pavia - con la mia compagnia tentammo una sortita partendo da Cividale con l’equipaggiamento ridotto al minimo e composto da quattro pacchetti di munizioni, un caricatore e due bombe a mano, in direzione di Caporetto. Lungo la strada trovammo gruppi di soldati italiani che indietreggiando dalle posizioni su cui erano attestati ci avvertirono della presenza di austriaci e tedeschi nei dintorni». Borroni è uno degli Ultimi cui Nicola Bultrini e Maurizio Casarola dedicarono, due anni fa, un volume incentrato sui loro racconti (ed. Nordpress). Vive ancora, Delfino, ed è con la mente ancora lassù.
Riceve l’ordine di andare in avanscoperta. Una scarica di mitraglia lo butta a terra «e mi ritrovai faccia a faccia con due austriaci morti che mi servirono per coprirmi» dai colpi successivi. «I miei compagni credendomi ormai perso non desistettero comunque dal proteggermi con il fuoco di copertura. Un mantovano piangeva ripetendo continuamente in dialetto “Mama, mori” fino a quando non lo sentii più. Approfittando di un attimo di tregua riuscii, strisciando per diversi metri, ad aggirare la zona e ad arrivare di nuovo dai miei compagni, increduli che fossi riuscito a cavarmela. Il capitano mi prese fra le braccia e mentre mi accarezzava la testa, vide che avevo una pallottola conficcata nel tacco dello scarpone. Avevo avuto salva la vita per quel colpo che mi aveva fatto cadere lungo disteso».
Anche Lazzaro Ponticelli, Francesco Domenico Chiarello, Battista Serioli, Carmelo Bertolami (gli ultimi due sono classe ’900) restano in vita e sorvegliano la fiammella del ricordo. Avellino Consigli da Città di Castello, invece, è mancato. Come Luigi Rava da Sant’Alberto (Ravenna), che «nella ritirata di Caporetto - scrivono Bultrini e Casarola - percorse i 160 chilometri che vanno dal fiume Isonzo \ fino al Piave, dove l’esercito aveva organizzato il nuovo fronte, interamente a piedi». E come Ido Giorgetto Sarravalle da Polesella (Rovigo). Era lo sbarbato della sua compagnia, 17 anni e mezzo, in quei maledetti mesi di fame e sangue: «questa è stata la mia fortuna in quanto gli altri miei commilitoni avevano un senso innato di protezione verso di me». Teofilo Gillarduzzi, invece, anch’egli deceduto, iniziò la guerra da austro-ungarico e la terminò da italiano. Nato a Cortina, fu chiamato alle armi a Brunico nel ’17. Sua maestà imperiale Carlo I, asceso al trono alla morte di Francesco Giuseppe, aveva bisogno di altri uomini. Così Teofilo si fece la campagna d’Italia giusto in tempo per finire nelle mani dei nemici e futuri compatrioti che lo riempirono di botte. Lo salvò un capitano degli alpini.
«Esiste una fiorente editoria sulla Grande Guerra - dice Bultrini - e molti luoghi che furono teatro delle battaglie sono visitabili. A Caporetto, per esempio, sono state ripristinate la prima linea italiana e le trincee dalle quali partì l’offensiva di Rommel». Un nuovo «filone» turistico riservato a quel Novecento che oggi ci sembra così lontano? È possibile. Ma per capire che cosa fu il secolo in cui nascemmo, è meglio lasciare di nuovo la parola a Delfino Borroni: «Nel 1921 fui assunto dall’azienda tranviaria e impiegato come macchinista sul tram chiamato “Gamba de Legn” che percorreva la linea Milano-Magenta-Castano Primo, paese in cui tuttora abito. \ Durante la seconda guerra mondiale il tram è stato mitragliato più volte dagli aerei alleati e ho rivissuto i momenti di paura passati nella grande guerra».

Perché cambiando l’ordine dei nemici, il risultato non cambia.

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