Il rapace tutelato che attraversa l’area dello Stretto

da Reggio Calabria

«Calabria, operazione Adorno». Non è un film, né un’inchiesta sulla ’ndrangheta. Ma più semplicemente il nome in codice della task force antibracconaggio del Noa del Corpo forestale dello Stato che ogni anno dal 1985, dal fine aprile ai primi di giugno, scende in riva allo Stretto con grande spiegamento di uomini e mezzi. Cinque jeep, due elicotteri e 25 agenti forestali addestrati e dotati di sofisticata tecnologia sono andati via qualche settimana fa. Negli anni scorsi sono arrivati anche 80, 100 agenti alla volta. Ognuno di loro costa 40 euro al giorno di vitto e alloggio, più le spese per il carburante per auto ed elicotteri (almeno 100 euro al giorno) e la diaria di missione (5,50 euro al giorno). Un’altra task force antibracconaggio è in azione nelle Valli bresciane contro la caccia ai pettirossi. Ma è normale che lo Stato spenda almeno 150mila euro l’anno per combattere il bracconaggio in Calabria? E perché 23 anni di «missioni» non sono stati sufficienti?
La risposta a queste due domande non è semplice. Perché questa è una storia di doppiette e doppi sensi, di piombo e di corna, di tradizioni dell’ultimo lembo d’Europa che fanno a pugni con le leggi volute da Bruxelles. In particolare quella che dall’85 tutela il falco pecchiaiolo, che qui chiamano «adorno», come specie protetta. Ma a Reggio Calabria la caccia all’adorno non è uno sport o un passatempo. È una necessità. Perché tradizione vuole che chi non riesce a ucciderne uno, ogni anno, ha qualche problema con la moglie. È impotente, è un cornuto. Anzi, è «’u sindacu», il sindaco. E quella nomea, «il sindacato», lo accompagnerà per tutto l’anno, per strada e in ufficio. Ancora oggi, a terzo millennio inoltrato.
Certo, è una tradizione in disuso: secondo la Lipu si è passati dall’uccisione di circa 2.000 rapaci degli anni ’83-84 ai circa 200 del 2006. Anche grazie alla task force. Ma un quarto di secolo fa è stato difficile far digerire la rigida norma Ue ai reggini. I giornali del tempo riportano mozioni in Consiglio regionale in cui si affermava: «Non si tiene conto che della larga comunità di cittadini che da tempo invocano una deroga». Oppure: «La caccia all’adorno non pregiudica la riproduzione della specie, non arreca danno all’agricoltura o all’equilibrio naturale. Non disturba nessuno». Anzi, è «un diritto storico consolidato e profondamente radicato nel costume delle popolazioni reggine».
Tanto radicato che, in quegli anni, furono ben 9mila (ma qualcuno dice anche di più) i voti nulli in provincia di Reggio. Novemila schede «marchiate» dall’innocuo adesivo arancione «W la Caccia» alle Europee e alle amministrative. Tanto radicato che qualche anno fa un assicuratore di 41 anni venne arrestato perché aveva ucciso un cacciatore che aveva osato contendergli l’ambita preda. Oggi che la caccia è vietata qualche centinaio di cacciatori, occasionali e no, rischia comunque la galera per colpirne almeno uno. Si spara di nascosto, magari dal balcone di casa. Oppure ci si muove nei boschi sopra Reggio Calabria e Villa San Giovanni.
«Ma noi conosciamo quelle terre palmo a palmo - dice un agente forestale - dalle 12 alle 19 setacciamo alture, fiumare e anfratti a cercare armi e bracconieri». Le storie di fucili nascosti dentro tubi di plastica o di bambini che corrono a recuperare l’adorno si sprecano. «E in più - aggiunge - controlliamo il territorio, facciamo prevenzione degli incendi boschivi e aiutiamo le forze dell’ordine». Più di una volta, infatti, polizia e carabinieri si sono serviti di loro per scovare dei latitanti.

Nel 2000 una squadra scoprì una piantagione con 50mila piantine di canapa indiana. Lo scorso maggio, invece, gli agenti forestali fermarono un uomo che aveva appena sparato al fratello, scoperto a letto con la cognata. E poi le chiamano superstizioni...
felice.manti@ilgiornale.it

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