La regia di Carriglio arriva a Ionesco passando per De Chirico

Arci-italiano, e arci-siciliano, Pietro Carriglio, l’ultimo regista dotato di un aspetto oltre che di un mestiere teatrale, si applica al più francese e al più snob dei drammaturghi: Eugène Ionesco. Si è molto parlato delle sue Sedie, messe in scena al Piccolo Teatro di Milano (ora la sera del 21 marzo, in forma di oratorio, ripresa al Teatro Kim di Salemi): ma a me preme segnalarne la regia soprattutto sotto l’aspetto scenografico. E dunque Carriglio, nostalgico della grande pittura italiana, cerca l’equivalente figurativo dello scrittore del paradosso e dell’assurdo. E gli viene naturale, senza tradire la tradizione e la nostalgia dell’arte italiana, risalire a Giorgio De Chirico. E vedere in lui l’ordine, la geometria, le città ideali del Rinascimento nella ricostruzione piacentiniana delle piazze vuote del grande pittore metafisico. Le piazze sono oltre, altrove; Carriglio entra in una ciminiera, ne perlustra gli ambienti interni; ricostruisce con ciò la stanza del faro descritto da Ionesco. Dall’interno, nel paramento di laterizio con il quale, con molta finezza, a Milano, ha accompagnato l’architettura di Marco Zanuso, si avverte lo spazio esterno attraverso due finestre, occupate da cielo e nuvole, che richiamano i fondali di Piero della Francesca e dei pittori ferraresi del Quattrocento. Sentiamo che lo sviluppo verticale dell’architettura si rastrema verso l’alto, e abbiamo davanti, nel campo normalmente occupato dalle poltrone, uno spazio vuoto, dove si agitano i due vecchissimi abitanti del faro, in un dialogo di abissale sprofondamento nella memoria, confortandosi e rimproverandosi vicendevolmente. Il vuoto è il luogo naturale per il loro destino, così come il faro si immagina su uno sperone roccioso contro il quale si frange il mare rumoreggiando e ululando. Ampi spazi e prolungati suoni accompagnano il dialogo insensato e vertiginoso di Galatea Ranzi e Nello Mascia. Ciò che della lunga vita loro resta si consuma in recriminazioni e querimonie. Ma esse hanno un tono alto, proprio per la solennità dello spazio. Solitudine, sacralità, insensatezza. Sul fondo le porte restano chiuse, finché si riapriranno nell’agitarsi di fantasmi. E, intanto, lo spazio vuoto si popolerà di sedie per accogliere testimoni invisibili, muti e assenti. Per questa rappresentazione la regia, la scenografia di Pietro Carriglio, hanno una espressività che integra quella dei valorosi attori.


Nel vuoto senza riferimenti del teatro di Salemi, a fianco dei simulacri di Carmelo Bene e Pier Paolo Pasolini, concepiti da Cesare Inzerillo, tocca ora a Sabrina Colle far immaginare la visione neo-metafisica di Carriglio con un’interpretazione più distante che drammatica. E il vuoto, più di quanto avesse inteso Ionesco, diventa protagonista. Secondo Carriglio.

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