Un miliardo di euro che l'Italia perde ogni anno, a causa della «fuga di cervelli». É questa la ricchezza prodotta dai ben 243 brevetti che i nostri migliori 50 ricercatori producono all'estero.
Il calcolo l'ha fatto uno studio dell'Istituto per la Competitività (I-Com) ed è stato presentato al Senato dalla fondazione Lilly, che proprio per invertire questa tendenza ha istituito delle borse di studio per aiutare i giovani a rimanere in Italia e condurre nelle nostre strutture le loro ricerche.
Nella Terza edizione del premio «La Ricerca in Italia: un'idea per il futuro» la fondazione ha infatti assegnato una borsa di studio di 360 mila euro a Chiara Cerami, trentaduenne palermitana, impegnata nella ricerca di una nuova diagnosi precoce per l'Alzheimer.
L'Italia è in fondo alla classifica per numero di brevetti sviluppati in patria negli ultimi anni, mentre sale sempre di più nella classifica di produttività di brevetti «italiani» all'estero, raddoppiando da 12 a 24. E la lista è sempre più rosa.
«Dal monitoraggio della lista dei Top Italian Researchers - spiega Concetto Vasta, direttore generale della fondazione Lilly- abbiamo osservato che nel giro di un solo anno, tra il 2010 e il 2011, il numero delle ricercatrici è raddoppiato , passando da 2 a 4. I numeri mostrano che quest'ambito professionale è ancora saldamente nelle mani degli uomini ma l'aumento della presenza femminile è un segnale importante».
Secondo lo studio dell'I-Com, nel corso della sua attività un giovane ricercatore ha una produttività media di 21 brevetti che, in termini di ricchezza economica, equivalgono a 63 milioni di euro considerato il valore attuale e a ben 148 milioni di euro in una proiezione a venti anni.
Solo nell'ultimo anno sono state brevettate 8 scoperte dai 20 migliori ricercatori italiani fuori dal suolo nazionale come autori principali, per un valore di 49 milioni di euro che tra venti anni diventeranno 115 milioni di euro.
Se si considera invece la totalità dei brevetti a cui i nostri 20 «top cervelli fuggiti» hanno contribuito come membri del team di lavoro, i brevetti solo nell'ultimo anno salgono a 66. Si tratta di 334 milioni di euro attuali che diventano 782 milioni di euro nell'arco dei prossimi 20 anni.
Il problema è che nei finanziamenti alla ricerca quasi nulla è cambiato negli ultimi 10 anni nel nostro Paese.
Nel 2000 la percentuale destinata alla ricerca era l'1,1% e nel 2011 si registrano pochissimi progressi, considerato che il valore oscilla tra l'1,1% e l'1,3%, suddiviso in 0,6% da fondi pubblici e 0,5% da privati.
«L'investimento in ricerca e sviluppo è sotto la media dei paesi Ocse», afferma Andrea Lenzi, presidente del Consiglio Universitario Nazionale (Cun). E aggiunge che il settore trainante della ricerca è quello biomedico, « a cui è destinata la quota più alta degli investimenti, pari allo 0,078 % del Pil».
L'altro aspetto preoccupante è che in Italia manca un'organizzazione centrale in grado di seguire il destino dei finanziamenti e questa assenza impedisce che i fondi vengano raccolti e distribuiti secondo criteri meritocratici.
Le risorse, così, si perdono in mille progetti senza essere convogliati nei centri «incubatori di idee», parchi scientifici e campus di ricerca, che stanno fiorendo nei paesi più avanzati.
Eppure, anche senza soldi e senza «garage» dove coltivare le loro idee, i nostri ricercatori rimangono tra i migliori al mondo: «pazzi e affamati» si definiscono con le ormai famose parole del fondatore della Apple, Steve Jobs.
«La ricerca italiana pubblica tanto e bene -spiega Lenzi- , infatti i suoi ricercatori sono massicciamente presenti nell'1% delle ricerche più citate nel mondo, nonostante la scarsità di finanziamenti. Purtroppo, però, il ricercatore italiano valorizza e brevetta poco le sue scoperte».
Per far fronte a questo problema è stato annunciato al convegno in Senato il primo corso di alta formazione in «Valorizzazione della Ricerca e Sviluppo», messo a punto dall'università La Sapienza di Roma e per il primo anno totalmente finanziato dalla fondazione Lilly.
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