Il rischio di chi cerca visibilità

Questa volta non c’entrano i franchi tiratori che dominavano l’archeologia della prima Repubblica, quelli che impensierivano Andreotti. E nemmeno i «franceschi» tiratori che bersagliarono nella culla il governo di Romano Prodi. Non c’è neanche l’aria del mercato delle vacche, quello in cui i titolari dei partiti mono seggio trattano il loro voto in cambio di una leggina clientelare. Questa volta, il governo ha avuto una maggioranza blindata, matematica, a prova di assenteismo, di mal di pancia e di eventuali mancamenti dei senatori a vita. Quindi, se è costretto a ricorrere alla fiducia e a subire il teatrino della politica è perché c’è un problema politico negli equilibri della maggioranza. Non si tratta di circostanze ma di strategie.

Nel centrodestra, anche all’interno di una coalizione molto coesa, continua a persistere l’idea che le identità siano frutto delle contrattazioni parlamentari: esisto come partito perché difendo la centralità di un aeroporto. Così, non per rissosità ma per pianificazione strategica, anziché procedere sempre in una direzione come governo, si cerca una subordinata come partito.

La Lega costruisce la sua identità politica per emendamenti: una volta sonole classi differenziate, un’altra la tassa sull’immigrazione. Tutti provvedimenti che possono essere più o meno condivisibili, se non vengono usati come una bandiera per affermare la propria esistenza. E si arriva persino al paradosso di fare una politica sganciata dalla propria coalizione per ottenere un obiettivo che è dell’intera coalizione: il federalismo.

E che dire di An e del suo leader? Da mesi Fini ha preso talmente sul serio il suo ruolo di garante da essere indicato da qualcuno, ironicamente, come il leader che il Pd sta tanto affannosamente cercando. Sacrosanto che un Presidente della Camera critichi l’eccesso di richieste di fiducia, però Fini dovrebbe sapere che se questo governo vuole mantenere l’impegno di decidere non può perdersi nella melassa dei regolamenti parlamentari, che tutti vogliono riformare.

Esiste quindi una sorta di tassa occulta, una tassa di governabilità. Il tributo che ogni maggioranza deve continuare a pagare alle paure degli alleati che la compongono. Una tassa di governo che ha come peculiarità di non essere pagata dai politici che la impongono, ma dagli italiani che la subiscono. Non si sta in Parlamento per fare la riforma della giustizia, ma cercando visibilità per le prossime scadenze elettorali (Amministrative ed Europee) o congressuali (la nascita del Pdl).

Questo problema non riguarda solo Berlusconi: è l’eterno problema della politica italiana. E così finché il conflitto sarà lo strumento di espressione della propria identità, la politica del fare resterà un sogno da conquistare a fatica.

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