Lo scaricabarile sul debito pubblico

Come può un cittadino normale capire chi veramente ha lasciato buchi finanziari nelle varie legislature. Viene il centrodestra e dice che il buco l’ha lasciato il centrosinistra, se dovesse venire il centrosinistra (spero di no) diranno che è stato il centrodestra. Ma quando finirà, se finirà, questo «scarica-barile»?
Vittorio Vodret - e-mail

Uno scaricabarile, caro Vodret, che dura esattamente da 129 anni. Se si avesse la costanza di rimbalzarlo da governo a governo, da coalizione a coalizione, il barile si fermerebbe infatti sulla scrivania di Agostino Depretis. Un po’ di storia, che quella mi piace sempre raccontarla: fatta l’Italia, l’Italia medesima si ritrovò (nonostante avesse incamerato tutto il contante e i titoli del Regno delle Due Sicilie, e non sono bruscolini) senza una lira. Le guerre del Risorgimento erano costate un occhio e un altro occhio stava costando la normalizzazione. Ritrovandosi un debito pubblico di circa 3mila milioni di lire, la prima cosa che fecero i governi unitari fu d’aumentare le tasse portandoci a essere - record che ancora deteniamo - il Paese fiscalmente più esoso in Europa (il prelievo era del 17 per cento, contro il 12 della Francia e il 6 dell’Inghilterra). Ma siccome non bastava, oltre a dare il via a una massiccia privatizzazione dei beni pubblici ed ecclesiastici misero mano alla «politica della lesina» con tagli severissimi a tutti i ministeri. Il rigore funzionò e nel febbraio del 1876 Marco Minghetti poté finalmente annunciare l’auspicato pareggio del bilancio. Però, siccome i politici spilorci non piacciono mica tanto gli elettori punirono la Destra e al governo andò la Sinistra di Agostino Depretis, noto anche per essere l’inventore del «trasformismo». E per essere colui che riportò il bilancio in rosso. Un fulmine, in materia: due anni dopo il «buco» ammontava già a 250 milioni. E da allora non solo non s’è più richiuso, ma s’è progressivamente allargato fino a raggiungere dimensioni di spaventosa entità. A cercar di ridurlo ci provò Benito Mussolini con la parità della lira (la nota «Quota 90»), numerose politiche a sostegno del credito (la creazione dell’Imi - che aveva il compito di concedere prestiti alle industrie - e dell’Iri che concedeva credito alle imprese in crisi) e altro, ma anche se avesse potuto farcela, cosa assai dubbia, sopravvenne la guerra e con quella addio al sogno dei bilanci in pareggio.
Il dopoguerra non era certo la stagione adatta per risparmiare sulla lira, che oltre tutto non c’era: bisognava ricostruire e ricostruimmo alla grande, senza tanto badare ai conti. Va comunque detto che fino agli anni Sessanta i governi si attennero al dettato costituzionale che impone (articolo 81) di indicare i mezzi per far fronte a ogni nuova spesa. Ma durò poco e col centrosinistra si impose la filosofia del «deficit di spesa» unita alla rinuncia in partenza del pareggio del bilancio, faccenda ritenuta arcaica e anche un po’ fascista. L’andazzo di varare spese prive di copertura finanziaria - l’allegra finanza - determinò un disavanzo che, dal 1960 al 1985, aumentò del 32.000 per cento. A quel punto non c’era più niente da fare: il buco, trasformatosi in voragine, poteva al massimo essere tenuto sotto controllo. Chi si installa a Palazzo Chigi lo eredita, magari scoprendo che risulta più profondo di quanto il precedente governo dava a intendere.

Per sanarlo, quel deficit, ci vorrebbero tre vite di un Minghetti e nove generazioni d’italiani inclini a tirare la cinghia fino all’ultimo buco. Ce li vede, lei, caro Vodret?

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