Charles De Gaulle conosceva bene la sua Francia. Al punto da avere descritto con quasi mezzo secolo di anticipo gli umori dei suoi concittadini il giorno della richiesta-ratifica della nuova Costituzione europea. Parlando per esperienza, aveva sintetizzato il modo francese di essere di malumore in tre parole: la «hargne», la «grogne», la «rogne». Una triade di rancore, mugugno e voglia di grattarsi, magari a sangue. Così è andata nellultima domenica di maggio 2005: tutti i motivi di lagnanza, anche quelli fra di loro contrapposti, si sono congiunti alle urne nel dire «no». Ufficialmente alla nuova Costituzione europea che nessuno aveva letto, né in Francia né fuori. Politicamente, forse, allandazzo percepito dellUnione Europea, sospettata fra laltro di inoltrarsi in acque incognite durante una tempesta. Economicamente contro le cause presunte di un malessere reale, di un momento difficile per quasi tutti i Paesi europei, che non può non ripercuotersi ovunque sulla popolarità dei governi. Personalmente, infine, contro Jacques Chirac, colpevole fra laltro di aver imposto al Paese una lacerante campagna elettorale che non era affatto necessaria. Né la Costituzione (quella francese), né alcuna promessa internazionale obbligavano infatti lEliseo a indire questo referendum. Chirac ha voluto altrimenti, evidentemente a fini di politica interna. Egli ha insomma giocato una mano di poker. Recidivo, perché aveva tentato lo stesso gioco nel 1997. La Destra da lui guidata disponeva della maggioranza inaudita di quattro seggi su cinque allAssemblea nazionale. Chirac convocò elezioni anticipate e vinse la Sinistra. Due volte in otto anni sono un po tante. Quando capitò a De Gaulle, nel 1969, egli ne trasse la sola conseguenza compatibile con il suo orgoglio: se ne tornò a casa. Chirac non è De Gaulle: è solo gollista, cosa alquanto diversa.
E lEuropa? Non se ne gioverà ma non ne perirà. Certo un «no» della Francia, Paese trainante nel processo di unificazione fin dal primo giorno, ha un peso molto maggiore della media; ma il processo «europeo» è già sopravvissuto ad altri accessi del malumore gallico, a cominciare dal voto del Parlamento che cinquantanni fa affossò la Comunità europea di difesa, che avrebbe dato allEuropa quel potere militare integrato e indipendente che Parigi si sforza ora di costituire. Molte cose sono adesso possibili. La più probabile è che non subisca mutamenti il calendario delle ratifiche dei quindici Paesi che non si sono ancora espressi. I «sì» sono «in testa» 9 a uno. Anche dando per scontato che i Paesi Bassi imitino domani la Francia (lo prevede anche la cabala: lo sconfitto segretario del Partito socialista francese si chiama François Holland), è certo che quasi tutti gli altri diano un parere favorevole che non potrà essere cassato (politicamente anche se non formalmente) da due pareri contrari. Giscard dEstaing pensa addirittura che si finirà col richiamare alle urne i francesi per un ripensamento; ma lha detto prima del risultato. Non si potranno non cogliere, invece, i segnali, per quanto confusi e contraddittori. Quella dei no è una macedonia, ma alcuni degli ingredienti sono importanti. Sono tutti timori: di una Europa senza confini che si perda nella steppa degli sciti o nellaltopiano anatolico. Che si lasci travolgere dalla «globalizzazione» abbandonandovisi o invece erigendo barriere non realistiche e donchisciottesche. Che si ingarbugli in una crisi dei rapporti con lAmerica. Ma soprattutto timore della perpetuazione del potere incontrollato e frigido di una classe di burocrati annidati a Bruxelles privi di legittimazione e di controllo popolare, perversamente autosufficiente nelle nuvole, non soltanto priva di slanci ideali ma portatrice di un contagio che li prosciughi nei vari Paesi.
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