Politica

Scommessa sul futuro

Era il 1683 e l’Europa cristiana fermò l’impero ottomano alle porte di Vienna. Siamo nel 2005 e l’Europa prova a verificare se la Turchia possiede i requisiti per essere ammessa in quel grande e contraddittorio club che prende il nome di Unione europea. Trecentoventidue anni dopo la cerimonia di fidanzamento non ha nulla di fastoso e non solo perché l’ostinazione di Cipro ha rischiato di far saltare all’ultimo minuto il protocollo negoziale. A rendere opaco un giorno salutato da molti come storico, è la carta di identità dei due contraenti: da un lato una Ue benestante, ma sempre più emarginata sulla scena mondiale dalla strapotenza americana e dall’impressionante avanzata cinese; un’Europa imborghesita, che vuole difendere a tutti i costi la propria prosperità ma che non ha più la grinta né l’inventiva per essere davvero competitiva, indebolita dal rapido invecchiamento della popolazione. D’altro lato una Turchia che invece di forze ne ha fin troppe - la sua popolazione è giovane e in continua crescita - ma che non ha serbato nulla della potenza e dello splendore ottomano; è un Paese povero che faticosamente lotta per conciliare la propria identità islamica con la civiltà di un Occidente da cui si sente irresistibilmente attratto.
In mezzo ci siamo noi, i cittadini europei, e loro, i nostri leader politici. Divisi, ancora una volta, sull’Europa. La gente comune è contraria all’adesione della Turchia, con percentuali che in certi Paesi sono plebiscitarie, come in Finlandia (79%), Austria (78%), Germania (71%). I governi della Ue tendenzialmente favorevoli, sia di destra sia di sinistra.
Siamo sinceri: se si dovesse decidere adesso, il nostro non potrebbe che essere un chiaro e fermo no. Oggi la Turchia non è pienamente europea, non tanto perché attraversando il Bosforo si viene accolti dal cartello «Benvenuti in Asia» a riprova che l’80% del territorio turco appartiene a un altro continente. E non solo in quanto la sua identità islamica solleva plausibili perplessità e resistenze. Non lo è per ragioni difficilmente contestabili: perché il rispetto dei diritti civili non è ancora garantito, perché l’applicazione dello Stato di diritto è altalenante, perché importanti minoranze, come quelle curde, non vengono trattate con il dovuto riguardo.
Che no sia, dunque. Eppure qualcosa non quadra; c’è un aspetto che l’opinione pubblica, troppo emotiva, tende a scordare: noi non dobbiamo decidere ora, ma tra dieci e forse addirittura tra quindici anni. La firma dell’accordo di ieri in Lussemburgo non significa che la Turchia diventerà automaticamente un membro della Ue. Al contrario, le condizioni poste dai Venticinque sono insolitamente dure, perché non danno alcuna garanzia sull’esito finale e perché sanciscono la possibilità di interrompere i negoziati in qualunque momento. Di più: ammesso - e non è affatto scontato - che nel 2015 o nel 2020 Ankara venga ammessa, l’ultima parola spetterà agli elettori di quei Paesi - e saranno molti - che sottoporranno al popolo la ratifica dell’intesa. Basterà un solo no, anche di un Paese piccolo, piccolo, a far saltare tutto. Il responso di Francia e Olanda sulla Costituzione Ue è lì a dimostrarlo.
E allora, se si considera questa triplice garanzia, si possono considerare le ragioni che inducono i leader della Ue a trattare con i turchi. Una il lettore l’ha già intuita: un’adesione di Ankara consentirà di attenuare gli effetti - davastanti - dell’invecchiamento della popolazione europea. Il secondo motivo è di ordine strategico: la Turchia è nella Nato dal 1952; cinquantatré anni di assoluta affidabilità. Dal punto di vista militare è già una dei nostri.
Ma, e veniamo qui al terzo punto, come tutti i Paesi islamici è costretta ad affrontare la crescente influenza del fondamentalismo islamico. L’11 settembre 2001 non ha sconvolto solo l’Occidente, ha indebolito anche regimi islamici moderati e progressisti, come quello turco. Chi, da noi, è contrario all’adesione sostiene che, ammettendoli rischiamo di favorire la diffusione dell’integralismo nella Vecchia Europa. Il rischio, non c’è dubbio, esiste. Ma se ci mettiamo nella prospettiva del premier turco Erdogan e di chi valuta i problemi in chiave geostrategica, come il presidente degli Stati Uniti, ci accorgiamo che l’adesione alla Ue rappresenta una battaglia decisiva contro Al Qaida: se Ankara la vince e l’adesione consente un miglioramento delle condizioni di vita del Paese, dimostra che la democrazia e il libero mercato rappresentano l’unica vera soluzione alla povertà e all’emarginazione. Se il governo turco perde, gli estremisti potranno dimostrare che l’Occidente pensa solo a se stesso e che l’unica risposta può essere trovata nel ritorno a un Islam retrivo. E i filo occidentali non avranno argomenti da contrapporre.
Infine c’è una quarta ragione, di ordine economico: il polmone turco può ridare ossigeno al nostro ansimante mondo economico.
Ecco perché il nostro giudizio è sospeso. Noi non sappiamo come sarà il mondo tra dieci o quindici anni. Se ripensiamo al nostro passato ci accorgiamo che nessuno, solo 16 anni fa, immaginava il crollo del Muro di Berlino e il ritorno alla democrazia nell’Europa dell’Est. La storia talvolta sorprende piacevolmente. È successo con l’impero comunista, potrebbe accadere con il fantasma di quello ottomano.
marcello.

foa@ilgiornale.it

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