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Un secolo di Milano-Sanremo

Dalla combine di Gerbi alle volate giù dal Poggio: sabato si celebra il primo secolo della classicissima Con un filo conduttore: la suspense

Un secolo di Milano-Sanremo

La prima volta partono alle 5.17, in trentatré. Solo quattro gli stranieri, tutti francesi. Tra i nostri, il più accreditato è Giovanni Gerbi, cui la Bianchi ha promesso due lire e mezza al chilometro, in caso di vittoria. Lui, facendo rapidi conti, capisce che è nettamente più redditizio vendere le proprie prestazioni al favoritissimo Lucien Mazan, meglio noto come Petit-Breton, perché piccolo e perché bretone: «Ti aiuto a vincere e dividiamo a metà, d’accord?». L’altro sputa sulla mano e accetta convinto: «Oui, mon amis».
Il patto funziona alla perfezione: primo Petit-Breton, secondo Gerbi a 15’’. Il quarto, Ganna, a oltre mezz’ora. Il sesto, Pavesi, a un’ora e otto minuti. Il decimo, Belloni, a quasi due ore. Gli altri li aspettano quando le tenebre sono già calate sulla Riviera. Per la verità, la fine ufficiale della gara cade due giorni dopo, quando Gerbi viene retrocesso al terzo posto: nell’impeto collaborativo, per spianare la strada al suo datore di lavoro, ha spinto il terzo incomodo Garrigou su una cunetta. Privato del posto d’onore, Gerbi si consola riscuotendo puntualmente il pattuito: 2.145 lire.
È il 14 aprile 1907: nasce la Milano-Sanremo. In questo stesso periodo, nascono il tunnel ferroviario del Sempione e il complesso siderurgico della Falck. Al governo, Giolitti sta avviando riforme a favore dei lavoratori, incentrate su previdenza, riposo festivo e orario più umano.
Per la verità, la Milano-Sanremo era nata l’anno prima, ma riservata alle macchine. L’idea della Gazzetta, allora bisettimanale, era quella di unire la grande città dell’industria con la località dei fiori e dei soggiorni di lusso. Peccato che le macchine, una dopo l’altra, fossero finite arrosto: trenta al via, due sole al traguardo, in un tripudio di lazzi e risa.
Così, nel 1907, sopravvive l’idea e si cambia mezzo di locomozione: tocca alla bicicletta. In quel periodo il marchingegno a motore umano sta vivendo un autentico boom. In gara bisogna superare molte difficoltà, come il costoso pedaggio sul ponte di barche che scavalca il Po e come la bufera di nevischio sul Turchino, ma i ciclisti riescono là dove avevano fallito le automobili. I primi si presentano a Sanremo dopo undici ore e quattro minuti: 288 chilometri alla media di 26,014.
Cent’anni dopo, cioè sabato, partiranno in duecento e viaggeranno ad una media di 45 orari. Un secolo è passato: anche la Milano-Sanremo mette in mostra i grandi progressi dell’umanità. Mezzo meccanico, vie di comunicazione, salute fisica. Ma c’è qualcosa che un po’ romanticamente e un po’ enfaticamente possiamo considerare immutato: il fascino della corsa. Che è notevolmente cambiata, ma che ha sempre trovato il modo per tenere alto il suo profilo aristocratico.
Ormai il Turchino non fa più paura a nessuno, neppure se infuria la tempesta. Ormai i Capi di Riviera incidono sulle gambe dei corridori come anonimi cavalcavia. Ma se la Sanremo ha perso per strada le sue difficoltà, col passare del tempo ha saputo scovare un elemento di assoluta unicità: la suspense. Il cuore in gola. Non esiste corsa al mondo che proponga la stessa scossa nervosa: dopo sette ore di noia, un quarto d’ora di impareggiabile apnea. In apnea i corridori, che devono scalare il Poggio a medie da discesisti. In apnea i tifosi, che osservano a denti serrati, come davanti alla roulette del casinò.
Cent’anni dopo, con due sole edizioni saltate per ovvi motivi bellici, la Sanremo è di nuovo qui attualissima e inimitabile, come le griffe che non accusano i guasti del tempo. Il suo albo d’oro rende più radioso il mito di tanti campioni, dal Cannibale Merckx che ne vanta sette al leggendario Girardendo che ne firma sei, passando per Bartali e Zabel che firmano un poker. Una volta premiava i più valorosi, adesso premia i più scaltri. Tecnicamente significa che una volta premiava i fondisti e adesso premia i passisti superveloci. Ma oggi come allora, difficilmente premia un anonimo comprimario. E quando capita, è lei a trasformare subito l’anonimo comprimario in un nome che nessuno dimenticherà più, illuminato per sempre da queste abbaglianti luci della ribalta.
Che il futuro ce la conservi a lungo, la Milano-Sanremo. Abbiamo vissuto il periodo in cui tutti quanti si affannavano a trovare il modo per renderla più selettiva, aggiungendo questa salita o quella variazione di percorso. Operazione miope e assassina, però: manipolare la Sanremo significa snaturarla, immiserirla, renderla un po’ più anonima e un po’ più uguale.
Teniamola così, conserviamola in una teca, alimentiamo la signorilità del suo marchio (quest’anno si torna alla grande punzonatura pubblica, in un luogo adeguato: appuntamento a domani in Galleria, nel salotto di Milano). La vita è già abbastanza uniformata, appiattita, banalizzata, mondializzata, perché ci si debba stupidamente privare degli ultimi pezzi unici.

Qualcosa che vada incontro con classe anche ai prossimi cent’anni, mostrando discretamente le sue firme d’autore.

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