L'inno nazionale, poi le bandiere, i rally sign, i palloncini, i coriandoli. Bianco-rosso-blu. La faccia di un partito, quella del suo candidato. Non si può sbagliare neanche un mezzo tono di colore. La convention è l'appuntamento. Inutile e fondamentale, perché un'immagine conta più di una parola. Tre anni e dieci mesi di minuzie e dettagli per arrivare qui, di fronte alle tv: l'America e il mondo collegati, dietro l'inferno che non si vede, liti, giochi, scalette, parrucchieri, staff, testi, musiche, collegamenti. Quanto costano quattro giorni? Venti milioni di dollari. Servono, perché oggi parte il ballo vero: il contorno è l'emozione dell'inizio. «Ecco il prossimo presidente e il prossimo vicepresidente degli Stati Uniti d'America» è la frase con cui finisce una partita e ne comincia un'altra. Democratici contro repubblicani, repubblicani contro democratici. La politica si fa show perché è così che dev'essere adesso, i contenuti arriveranno dopo. La convention è la facciata montata a neve, un comizio eterno dove nessuno si annoia, una parata di star, l'imperfezione perfetta. Falsa? No, contemporanea e necessaria. Via, allora. I soldi servono ad avere il meglio. Quattro anni fa i repubblicani misero a punto persino un manuale delle parole vietate: la prima era «sconfitta». Non piaceva allo staff del presidente Bush. A Boston, John Kerry diede la regia a Steven Spielberg e fece lo stesso: proibito pronunciare «liberal», «progressista», «B-work», dove ovviamente B stava per Bush. Perché nessuno avrebbe dovuto pensare che Bush lavorasse.
Non c'è spazio per l'improvvisazione in una convention. È così dal 1972, da quando i partiti organizzarono il modello moderno delle primarie itineranti e lasciarono all'evento finale la patente di passerella spargi-sorrisi.
Prima era il caos, invece. Era un evento decisivo, pieno di imbrogli e giochi di potere. Nel 1940 Franklin Delano Roosevelt capì che i democratici non volevano dargli la terza nomination. Allora bluffò e spedì Alben Barkley a fare il lavoro sporco: «Il presidente non ha mai avuto, né ha oggi, il desiderio di essere rinominato da questa Convenzione. Vi lascia liberi di votare per qualunque candidato». Panico a Chicago: il presidente si ritirava? Allora il sindaco di Chicago, Ed Kelly, collegò al microfono un altoparlante nascosto in cantina. Partì la voce di Thomas Garry, assessore alle Fognature: «Vogliamo Roosevelt». I delegati lo seguirono affascinati e FDR fu nominato per la terza volta. Un trucco, né più né meno. Uno dei tanti, perché questa era la regola: se si gioca, vale tutto. Nello stesso anno tra i repubblicani Wendell Willkie decise di strappare la nomination al candidato ufficiale, Taft, e fece stampare decine di biglietti di ingresso falsi, distribuendoli ai sostenitori. Non appena il suo nome venne messo in votazione scoppiò un boato lungo mezzora che trascinò Willkie alla vittoria. Certo Willkie era un parvenue, disposto a tutto pur di vincere. Però aveva semplicemente preso in prestito una trappola studiata da Abramo Lincoln che nel 1860 fece stampare i biglietti di invito al suo amico tipografo Ward Lamon. Quando arrivarono i militanti del rivale Seward non c'erano più posti in tribuna: Lincoln vinse e poi diventò presidente. Ora i giochi si fanno prima. Nessuno dei 4.234 delegati di Denver e dei 2.380 di Minneapolis farà sceneggiate, non ci sono biglietti falsi, non ci sono microfoni collegati con le cantine. Stamattina chi entra nella maxi sala sa già qual è il cartello che deve agitare di fronte alle telecamere. C'è il nome di Michelle Obama.
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