Gian Micalessin
«Noi viviamo in un Paese
». Non lo hanno lasciato dire una parola di più. In quel momento un secchio dacqua svuotato sul sistema elettrico che alimentava il microfono ha spento la sua voce. La voce di Ariel Sharon, del primo ministro, di uno dei membri fondatori del Likud, salito sul palco della fiera di Tel Aviv per spiegare ai tremila membri del comitato centrale le sue buone ragioni. Quelle che lo hanno indotto a lasciare Gaza e lo indurrebbero in futuro a cedere altri pezzi di terra. Le ragioni per cui lui simbolo, un tempo, della lotta a tutto campo al nemico arabo, ha finito con il condividere lidea di uno Stato palestinese e di dolorose, ma indispensabili concessioni per garantire la sicurezza del suo popolo.
«Non tutti i territori resteranno nelle nostre mani», avrebbe detto il vecchio generale incurante della rabbia dei suoi marescialli. Avrebbe infine spiegato a quei suoi tremila improvvisati giudici che metterlo fuori gioco, votando per anticipare le primarie, equivale a distruggere il Likud e riportarlo allopposizione. Cera questo, e molto di più, in quel discorso ripiegato e rinfilato nella tasca della giacca dopo aver guardato, stupito, quel microfono che non gli dava voce, dopo aver scrutato quella platea, in parte ostile, che guardava il suo leader zittito.
Ma Ariel Sharon, combattente di mille battaglie, non ha esitato. Non è rimasto a subire muto gli insulti e le invettive della sala. Le ha voltato le spalle, ha ripiegato il foglio di carta ed è tornato al suo posto. Un silenzio sdegnato in risposta a un sabotaggio senza precedenti. Un silenzio, lesperto Sharon lo sa, che potrebbe ora valergli più di mille parole.
Lo sapevano anche Benjamin Netanyahu e Uzi Landau, che poche ore prima della riunione del comitato centrale avevano convocato i loro sostenitori per invitarli a non rumoreggiare, a non disturbare il discorso del nemico. I militanti più estremisti del Likud hanno invece voluto strafare, e il generale potrebbe adesso avvantaggiarsene. Nella sala della fiera di Tel Aviv, dove oggi si vota per stabilire se anticipare o no le primarie, si decide in verità il futuro di Sharon, del Likud, di Israele e di un pezzo del Medio Oriente.
Se questa sera i tremila del comitato centrale seguiranno le indicazioni dei suoi rivali anticipando le primarie, Sharon dovrà decidere se abbandonare subito il partito o se combattere una battaglia disperata cercando di riconquistare la fiducia dei suoi militanti. La decisione non è semplice. Se abbandonerà subito, avrà il tempo per organizzare un nuovo partito e partecipare alle prossime legislative. Se perderà la sfida delle primarie, potrebbe non avere più tempo a disposizione ed essere costretto a ritirarsi a vita privata.
La scelta migliore per i nemici del vecchio e indomito leone sarebbe che se ne andasse subito, che lasciasse il campo libero, come ha fatto ieri sera di fronte a quel microfono zittito. Bibì Netanyahu non si è neppure vergognato di ammetterlo. Ha detto ai tremila del comitato centrale chiamati a decretarne la successione che chiunque desidera lasciare il partito deve farlo ora. Poi ha lanciato laffondo decisivo contro il vecchio leader, che già tante volte lo ha umiliato e battuto. «Noi non siamo il Meretz, noi non siamo la sinistra - ha urlato -, noi siamo il Likud». Infine ha dipinto Sharon come un dittatore a fine carriera, sordo a tutti i richiami del partito. «Siamo un movimento democratico o il partito di un singolo individuo che ignora tutte le nostre decisioni? Il Likud, caro Arik, non appartiene a me o a te, siamo noi che apparteniamo al Likud».
Un discorso chiaro e appassionato, diverso dai pronunciamenti incerti e dubbiosi che lo hanno spesso caratterizzato. Un discorso a cui però Sharon non ha potuto rispondere. E quel silenzio coartato potrebbe alla fine valergli più delle belle parole del giovane Bibì.
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