Su un punto sono tutti d'accordo: la Costituzione deve essere riformata. Numerosi sono i punti di convergenza su che cosa deve essere modificato: più poteri al capo del Governo, federalismo (cioè potere legislativo esclusivo più o meno ampio alle Regioni), federalismo fiscale (per responsabilizzare le Regioni ma senza compromettere la solidarietà nazionale), fine del bicameralismo perfetto e trasformazione del Senato nell'organo di rappresentanza delle Regioni. Ma ci sono anche punti controversi, specie quelli riguardanti i poteri del presidente della Repubblica e la composizione della Corte costituzionale e del consiglio superiore della magistratura.
La riforma del 2001 del centrosinistra riguardò il solo Titolo V della Costituzione e creò un federalismo sbilanciato a favore delle Regioni tanto che è aumentato il contenzioso tra queste e lo Stato e sono cresciuti i deficit di bilancio regionali, cui adesso si cerca di porre rimedio. Questa riforma fu approvata per via referendaria il 7 ottobre 2002 ed è quindi subito dopo entrata in vigore, causando in modo rilevante l'aumento del deficit pubblico.
La riforma del 2005 del centrodestra ha riguardato l'intera Parte II della Costituzione, cioè tutti gli aspetti sopra indicati, ma non ha realizzato il federalismo fiscale. Adesso su questa riforma si dovranno pronunziare gli elettori il 25-26 giugno. Se dovesse essere approvata, entrerebbe in vigore a partire dalla prossima legislatura, cioè dal 2011 e tutto l'iter applicativo si protrarrebbe fino al 2016. A parte le critiche del centrosinistra, che si sono spinte fino a definirla un orribile pasticcio o, come ha detto Oscar Luigi Scalfaro, un ritorno al premier onnipotente (del fascismo), anche dal centrodestra sono stati mossi dei rilievi per cui si ammette che sia perfettibile, tanto più che ci sarebbe tutto il tempo per farlo, eventualmente sulla base di larghe intese politiche.
La polemica in corso che oppone i due poli non riguarda i contenuti della riforma nelle sue linee generali sopra indicate, che poi coincidono con quelle emerse dai lavori della Bicamerale presieduta da Massimo D'Alema, ma la spinta che dal voto del 25-26 giugno potrebbe trarre lo stesso processo riformistico.
Per il centrosinistra, la vittoria del NO è pregiudiziale. Solo respingendo in blocco la riforma del centrodestra sarà possibile riprendere il dialogo per arrivare a una riforma condivisa. Per il centrodestra è vero il contrario: solo la vittoria del SÌ obbligherà il centrosinistra ad aprire un tavolo di trattative.
Giovanni Sartori, sul Corriere della Sera di domenica, non crede all'intenzione manifestata dal centrodestra - e illustrata da Giulio Tremonti che ha proposto un patto tra i poli prima del referendum consistente nell'impegno di mettere subito mano a rivedere la riforma del centrodestra dopo la sua approvazione per via referendaria - e sostiene che «promettere che una Costituzione approvata in Parlamento e poi confermata da un referendum verrà subito dopo ritoccata è davvero una promessa a credibilità zero». O meglio, un «bidone», come egli stesso scrive.
Anzitutto la promessa del centrodestra dopo l'eventuale vittoria del SÌ dovrebbe valere quanto la promessa del centrosinistra dopo l'eventuale vittoria del NO. Chi impedisce di pensare che il centrosinistra, affossata la riforma del centrodestra, e quindi incassata una chiara vittoria politica, si darebbe subito da fare per riformare la Costituzione, che i suoi leader difendono a spada tratta in ogni occasione?
Ma il punto è un altro. Se vincesse il SÌ, il centrodestra, essendo minoritario in Parlamento, non potrebbe opporsi a modifiche apportate dal centrosinistra, che in tal modo potrebbe abolire per via legislativa questa riforma: a costo zero, non essendo la sua attuazione immediata. Quindi il centrodestra avrebbe tutto l'interesse al dialogo per difendere la sua riforma e accettare le modifiche condivise. Allo stesso modo, il centrosinistra sarebbe obbligato ad affrontare un dibattito per arrivare a una riforma condivisa, se non vuole che quella del centrodestra entri in vigore dalla prossima legislatura. In altre parole, se vince il SÌ è scontato che i due poli vadano al dialogo perché è interesse di entrambi; se vince il NO, la sinistra resta padrona del gioco e con due carte in mano: può decidere di aprire un dialogo per una riforma condivisa oppure no e tenersi la Costituzione attuale, beninteso con la sua riforma già acquisita del Titolo V che ha già procurato abbastanza guai.
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