La sorpresa c’è davvero: un grande film sulla dissidenza cinese

Venezia «Non sarà un altro film cinese?». S’erano chiesti in molti conoscendo i noti gusti del direttore Marco Müller quando, annunciando il programma del concorso, aveva detto che si sarebbe aggiunto anche un film a sorpresa, il 24esimo. Nei giorni scorsi poi le «rassicurazioni» che si sarebbe trattato di un’opera europea. Alla fine, svelato l’arcano, avevano tutti ragione. Le fossé (Il fossato) è diretto dal cinese Wang Bing ma prodotto in Europa (Francia e Belgio). E non è certo un caso. Come non è casuale la scelta della Biennale di mantenere il segreto fino all’ultimo. Perché Le fossé, applaudito in sala (onore al merito della scelta a Müller), è un ritratto durissimo dell’atrocità commesse dalla Cina guidata da Mao Tse-tung nei confronti dei dissidenti politici. Naturale che, se le autorità di Pechino lo avessero saputo, per il regista sarebbe stato impossibile girare il film nel suo Paese così come presenziare all’anteprima veneziana. È abbastanza noto come, anche se Mao è morto e sepolto, da quelle parti non siano molto aperti a discutere di libertà o diritti civili neanche se declinati al passato.
Siamo nel 1960, il governo cinese condanna ai campi di lavoro forzato migliaia di cittadini considerati «dissidenti di destra» a causa delle loro attività passate o di critiche contro il Partito Comunista. Deportati per essere rieducati nel campo di Jiabiangou nella Cina Occidentale, nel cuore del Deserto del Gobi, lontani migliaia di chilometri dalle loro famiglie. Il film descrive minuziosamente, si potrebbe dire in maniera quasi documentaristica (che poi è la specialità del regista, ora esordiente nel cinema di finzione), la vita - se così si può ancora definire - di questi poveri uomini. Il paradosso poi, come se non bastasse, è che sono anche gli anni della grande carestia. Il cibo scarseggia e le persone iniziano a morire. «Che fai il cane morto?» grida il capo della sicurezza a un povero cristo a terra, colpendolo. Il piccolo dettaglio è che morto lo è per davvero. Che alla fine sarebbe anche il male minore. I più forti, aggrappati alla vita, leccano le gavette dei deceduti, brucano l’erba, mangiano il cibo vomitato dai malati, catturano i topi e tentano disperatamente di nascondere i morti per poi mangiarli. Ecco spiegata l’intensa attività di controllo sui defunti. Destinazione: il fossato. Anche perché i seppellimenti sommari possono facilmente essere oggetto di attenzione degli uomini-zombie.
E magari si trattasse di un innocuo film horror. Purtroppo è realtà, molto simile a quella che in Occidente s’è vista con l’Olocausto. Spiega il regista: «Nel 1957 il governo cinese lanciò un movimento “anti-destra” su tutto il territorio nazionale, definendo di destra forse più di un milione di cittadini finalmente riabilitati solo tra il 1978 e il 1981. Tra il 2005 e il 2007 ho intervistato molti dei sopravvissuti del campo. Le loro storie e il romanzo di Yang Xianhui Arrivederci Jiabiangou hanno costituito la base della sceneggiatura». Così veniamo a scoprire la facilità con cui si diventava dissidenti. Bastava ad esempio disquisire in pubblico sulla terminologia usata dal Grande Timoniere («Ma non sarebbe più corretto definirla dittatura del popolo che non del proletariato?») per finire al confino e «rieducati». Così come, nella toccante seconda parte del film, a una giovane donna che chiede conto «solo» di dove si trovi la tomba di suo marito, le viene immediatamente affibbiato il marchio di «politicamente losca». Insistere nella richiesta e provare a cercare nella sabbia il cadavere del suo uomo le costa una segnalazione alla Sicurezza della sua città. Un regalo per il viaggio di ritorno… Paradigmatico del controllo globale e capillare di ogni singola vita umana in quell’universo che si chiama Cina.


Cosa che peraltro spiega il grande atteggiamento diplomatico del regista alle domande dei giornalisti: «Non credo - dice Wang Bing, classe 1967, a cui il Filmmaker Film Festival di Milano dedicherà una retrospettiva a novembre - che il mio sia un film di denuncia o di protesta, ma costruttivo e critico. L’ho fatto soprattutto per ricordare quei fatti, per farli conoscere, visto che in Cina sono ancora un tabù. Non è contro nessuno ma vuole promuovere l’importanza del rispetto fra le persone».

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