Cultura e Spettacoli

Addio caro Gigi. Roma e l'Italia perdono un Re del teatro

Che cos'altro vuole, da noi, quest'anno orribile? Mentre teatri e cinema sono occhi ciechi e scompare un'epoca di vicinanza tra affini, se ne va Gigi Proietti, un grande di ogni scena nazionale

Addio caro Gigi. Roma e l'Italia perdono un Re del teatro

Che cos'altro vuole, da noi, quest'anno orribile? Mentre teatri e cinema sono occhi ciechi e scompare un'epoca di vicinanza tra affini, se ne va Gigi Proietti, un grande di ogni scena nazionale: tv, teatro, cinema, radio, musica, doppiaggio, regia, scrittura, egli ha illuminato della propria arte tutti gli ambiti dove occorresse la sua incontestabile bravura. Morto nel giorno del suo compleanno avrebbe compiuto ottant'anni l'attore, drammaturgo e regista ironizzava spesso sulla sua data di nascita. «Che dobbiamo fà? La data è quella che è: il 2 novembre». E alle prime luci della giornata più triste del calendario, il mattatore romano che è stato oltre mezzo secolo sul palcoscenico, si è spento per problemi cardiaci, nella clinica capitolina dov'era ricoverato da due settimane.

Non è morto soltanto un artista d'immenso talento, ma anche un amico degli italiani, che lo amavano per la sua immediatezza e per quell'autentica semplicità da erede di uno spirito romano antico, mai dozzinale o volgare e invece profondo ed elegante, pur popolare. Nessuno, infatti, avrebbe potuto cantare «Nun me rompe er cà», parodiando lo chansonnier Jacques Brel e la sua Ne me quitte pas, con la disinvoltura gentile che contraddistingueva tale fuoriclasse della metrica dal timbro basso. «Quando chiesero a Petrolini se discendesse dalla Commedia dell'Arte, lui rispose: Io discendo solo dalle scale di casa mia. E anche a me piace dire così di me», ripeteva appena gli si chiedeva se fosse lui l'erede di Petrolini. Al quale, comunque, lo legava il dialogo improvvisato col pubblico, lo straniamento brechtiano e la rientrata del personaggio. «È tutto un entrà e un uscì, entrà, uscì... certe correnti d'aria!», diceva nel suo «one man show» più popolare A me gli occhi, please (1976, al Teatro Tenda di Roma), nato dalla collaborazione col drammaturgo Roberto Lerici.

Partì da qui la popolarità del grande commediante di padre e madre di Amelia, arrivati nella Città Eterna poco prima della guerra. Gente umile, di scarsa fortuna, ma decisa a mandare Gigi all'università: doveva diventare avvocato, quindi Legge alla Sapienza. Meglio, però, suonare la chitarra, tra una lezione e l'altra. Strimpellando strimpellando nelle cantine-teatro, un giorno Giancarlo Cobelli, che veniva dalla scuola di Strehler, nota quel simpatico pennellone: ha presenza, voce, racconta barzellette esilaranti e suona bene. Invece delle pandette, Gigi studia Shakespeare, suo grande amore poi testimoniato con il Globe Theatre, gioiello elisabettiano nel cuore di Villa Borghese, fortemente voluto dall'attore, che amava formare giovani di talento. E mettendosi alla sequela di Vittorio Gassman, nei Sessanta, s'iscrive al Centro Teatro Ateneo, i cui maestri si chiamano Arnoldo Foà e Giulietta Masina. La svolta arriva nel 1970, quando Domenico Modugno dichiara forfait al Sistina per via dei continui litigi con Renato Rascel, altro talento del comico di parola: sarà Gigi a sostituirlo nel musical di Garinei&Giovannini Alleluja, brava gente. Viene giù il teatro e Roma ha la sua star, che se la ride: «Mi diverto e mi pagano pure». Insieme al successo, arriva la serenità familiare con la svedese Sagitta Alter, ex-guida turistica mai sposata e che gli darà Carlotta e Susanna, entrambe attrici. Anche l'odore della povertà, misto a quello del sugo della domenica; le chiacchiere e la vita di strada saranno l'àncora di Gigi, trainato al cinema da Gassman, col quale interpreta Se permettete parliamo di donne (1964) di Scola e Brancaleone alle crociate di Monicelli, dov'è voce e corpo della Morte. Della sua fisicità mercuriale s'incuriosiscono Tinto Brass, Elio Petri, Robert Altman e Sidney Lumet, che nel 1969 l'arruola sul set de La virtù sdraiata. Ma sarà Febbre da cavallo di Steno, col personaggio dello scommettitore imbroglione Mandrake a farlo conoscere alla massa italiana. Eppure, tale «commedia sbrigativa» (così Mereghetti, all'epoca), massacrata dalla critica di sinistra, oggi è film di culto e, quando a fine Settanta nascono le tivù private, viene venduto nei circuiti tv pronti alla replica. L'ultima apparizione, al cinema, è nel Pinocchio di Matteo Garrone, dov'è un Mangiafuoco malinconico. Il piccolo schermo amplificherà la riuscita di Proietti, a partire dagli Ottanta gaudenti, dov'erano seguitissimi i suoi sketch e certe storielle surreali dal costrutto apparentemente semplice, per poi esplodere col Maresciallo Rocca (dal 1996 al 2005), carabiniere affabile e spiritoso, più umano dei seriali Montalbano e Don Matteo.

Romanista, ghiotto di babà al rhum e nostalgico della sinistra perbene d'una volta, Proietti negli ultimi tempi si pronunciava spesso sul degrado della sua Roma adorata e sul trattamento inflitto agli anziani, specialmente oggi. «Non esiste momento storico, nella nostra civiltà, dove gli anziani non sono stati rispettati come adesso. E questa cosa mi fa un po' incazzare», osservava lui, che in uno spot tv, in tempi di Covid, invita i nonni d'Italia a rimanere a casa. «Il tempo passa per tutti. Noi anziani dobbiamo restare a casa. Così potremo di nuovo andare 'ndo ce pare». E adesso che il governo medita di sequestrare gli anziani e il governatore della Liguria dichiara gli over 70 «non indispensabili», Gigi Proietti, con un colpo di teatro, si è liberato.

Ed è andato «'ndo je pareva»: in cielo, a far sorridere i santi con la sua verve inimitabile.

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