Andrea Gentile racconta «I vivi e i morti» trasformando la scrittura in ossessione

Un romanzo che è molto più di un horror e carico di forza narrativa

Andrea Caterini

L'immaginario è quello di un film horror, o degli incubi mefistofelici dello scrittore statunitense Thomas Ligotti.

Ma se bastasse questo per fare una sintesi del nuovo romanzo di Andrea Gentile, I vivi e i morti (minimum fax, pagg. 549, euro 18), non avremmo molto di interessante su cui ragionare. Sono convinto invece che il romanzo nasconda un'ambizione e una metafora, e che le due cose, pure terminologicamente, quindi significativamente, distinte e separate nelle intenzioni, coincidano nella scrittura e, appunto, nell'immaginario dell'autore.

Ambizione è termine che potremmo leggere in senso positivo o negativo. Da una parte c'è l'ambizione di chiarire, attraverso un'opera d'arte, la propria visione della letteratura. Dall'altra, proprio per mezzo dell'ambizione, capiamo che la visione dalla letteratura nasce e nella letteratura muore (come fosse la città sotterranea che il libro racconta, un luogo oscuro e misterico un carcere custodito da un Sacerdote); che la letteratura sia quello a cui si ambisce, che la letteratura sia un tutto fuori dalla vita, uno spazio in cui il tempo è sospeso che sia la causa e il fine.

Qui c'è una terra desolata (Masserie di Cristo), o post-umana, un mondo arcaico e magico; qui ci sono figlie (Italia) costrette a uccidere il padre (Tebaldo), per poi finire in punizione in una soffitta senza acqua né luce; genitori (Beberto e Concetta) che perdono la figlia (Assuntina); riti che sembrerebbero satanici (la società del libero pensiero), e continui omicidi e sacrifici e torture. Nessuna morte, però, ci fa soffrire, nessuno stato d'animo ci angoscia o ci fa gioire.

È proprio questo il gioco letterario di Gentile, o, ancora, la sua visione. I morti potrebbero essere vivi e i vivi essere già morti. I personaggi sono gli attori di questa rappresentazione che, trovandosi in un tempo che è principio e fine, infinito e quindi ciclico, non può dare luogo a nessuna reale tragedia. Se il principio e la fine coincidono, e lo si capisce dalla struttura stessa del racconto che vuole contenere tutto, rilanciando parole che, oltre a essere i titoli dei capitoli, suonano come emblemi (Fiaba, Bellezza, Cervello, Essere, Amore, Giustizia, Eternità ecc.), allora capiamo pure che quella terra senza tempo non concede libertà o redenzione alcuna.

Ma il romanzo è metafora di cosa? «Fare l'arte è venire al buio. E se fai l'arte devi vivere come un relitto. Bisogna andare nel deserto. Vedere se anche in una landa incolta non si può vivere, respirare, esistere, volere e fare sinceramente il bene, e dormire di notte e sognare. La voce si avverte solo nel punto che muore». La metafora del libro è ancora la letteratura. O, prima ancora della letteratura, della necessità stessa di scrivere.

È la scrittura il vero contenuto del libro di Gentile; una

scrittura che è una patria in cui la propria vita muore («Si tratta di non pensare più a se stessi»), o si vuole capire in che forma vive qualcosa che potrebbe essere al contempo uno spazio di pace o il peggiore degli incubi.

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