Cultura e Spettacoli

Consumo collaborativo: dall'anticapitalismo al rilancio del mercato

Nata come progetto ideologico di sinistra, la sharing economy è oggi una realtà globale

Consumo collaborativo: dall'anticapitalismo al rilancio del mercato

Alle origini di quella che viene chiamata sharing economy l'economia della condivisione c'è una lunga tradizione essenzialmente avversa al consumismo, al profitto, al libero mercato. Basta leggere Lawrence Lessig, che nel 2007 fu forse il primo a utilizzare questo termine, per avvertire come tale cultura del mettere assieme sia stata pensata come alternativa alle logiche di quello scambio che invece ammette rapporti contrattuali finalizzati al profitto e all'allargamento delle proprie possibilità.

In origine, l'idea di affittare una stanza di casa a qualche turista rispondeva alla volontà di reagire a un settore dominato dalla specializzazione, dalla divisione del lavoro e dalle multinazionali del settore alberghiero. Una forma assai caratteristica consisteva nel consegnare provvisoriamente il proprio appartamento a uno sconosciuto in cambio di pochi soldi, andando all'estero ad affittare un'altra abitazione egualmente economica. Stessa logica dominava l'imporsi del car sharing, legato a una condivisione del viaggio che aiutava a consumare meno e a ridurre l'inquinamento, oltre che a non dare troppi soldi ai colossi della produzione di autovetture. Questa nuova economia, insomma, vede la luce quale tentativo di opporsi al capitalismo. Un simile progetto ideologico, però, a un certo punto è sfuggito di mano ai suoi stessi promotori. Se tutte le scienze sociali sono una riflessione sulle conseguenze inintenzionali, questa evoluzione della sharing economy offre materia interessante a tale riguardo.

Inizialmente il termine indicava una modalità di scambio e interazione basata sulla partecipazione. A quanti si erano formati sui sacri testi dell'economia classica e avevano più o meno chiaro lo spirito della modernità, questo universo in cui l'impiegato s'improvvisa albergatore e l'operaio diventa tassista doveva apparire bizzarro: non necessariamente da condannare, ma probabilmente destinato alla marginalità. In realtà le cose sono andate diversamente: probabilmente per due ragioni ben precise.

In primo luogo, è chiaro come la sharing economy che conosciamo oggi sia tutt'uno con la rivoluzione telematica. Senza internet e senza le app, non potremmo ordinare un'autovettura a Oslo con il telefono cellulare e neppure prenotare un appartamento a Barcellona con l'ausilio di un iPad. Quella serie di scambi che in origine aveva luogo primariamente grazie a rapporti diretti, ora ha conosciuto uno sviluppo formidabile in virtù del fatto che chiunque, a basso costo, può mettere se stesso e i propri beni a disposizione di tante altre persone. In un recente volume di Yuval Levin, direttore di National Affairs e protagonista di punta del dibattito culturale americano, la liberalizzazione della società americana è proprio collegata a questo spirito d'intrapresa che permette a molti di farsi imprenditori in piccolo e creatori di nuove opportunità. Sotto vari punti di vista, il pulviscolo di attività che costituiscono la sharing economy rappresenta allora l'esatto contrario dell'universo normativo ultra pianificato che ci impedisce di entrare in tutta una serie di settori economici controllati dallo Stato e regolati da norme e burocrazie.

Per giunta, quelle modeste iniziative che erano sorte per opporsi ai grandi gruppi internazionali, in verità si sono affermate nel mondo proprio quando anche la sharing economy ha visto emergere colossi (da Airbnb a Uber, per citare solo i più noti) che si sono messi al servizio di clienti e proprietari, di domanda e offerta, consentendo a questa nuova imprenditoria uno sviluppo altrimenti inimmaginabile. In fondo, se chi si era messo ad affittare la propria casa nel mese in cui andava in vacanza aveva maturato la consapevolezza che quel capitale era sottoutilizzato e poteva essere sfruttato meglio, altri imprenditori hanno compreso che quei beni, quelle energie e quelle intelligenze potevano essere meglio valorizzate grazie a strutture di enormi dimensioni capaci di interconnettere il mondo intero.

Se il web ha permesso un'alternativa di libertà a una società ingabbiata in norme, sindacati, corporativismi e protezioni di ogni genere, l'altro fatto cruciale che ha generato questa imprenditoria articolata in tanti automobilisti e proprietari di case, determinati a valorizzare al meglio i propri beni, è stato un sistema tributario oppressivo ed espropriatore. La sharing economy nasce pure quale occasione di fuga dalla tassazione oppressiva delle democrazie contemporanee.

Quella che avrebbe voluto essere una risposta un po' pauperistica e molto comunitaria alle logiche del profitto ha insomma finito per incarnare il liberismo più selvaggio: un'economia in cui ognuno è imprenditore di se stesso e si sottrae alla regolazione ottusa ed espropriatrice degli apparati statali, confidando in solidi meccanismi di autoregolazione che sono primariamente orientati a soddisfare ii consumatore. Con la sharing economy, così, l'anarchismo post-sessantottino ha incrociato l'anarchia di un mercato veramente libero, sempre obbligato a essere innovativo, votato a gratificare il pubblico.

Questa cosa nata a sinistra anche perché del tutto in sintonia con una certa idea di orizzontalità e autogestione esaltata dalla controcultura è stata così adottata dai paladini del mercato. Dallo slogan «condividere invece che possedere» si è quindi passati, assai presto, alla persuasione che sia possibile possedere di più (e fare affari) anche grazie a questa diversa modalità di agire, lavorare, mettere a frutto ciò che si ha. Ed è per questo che molti negano che si possa ancora parlare di un'autentica sharing economy.

Come ha sottolineato Tom Slee sul trimestrale della sinistra americana Jacobin, imprese come Uber, Lyft, Blablacar, TaskRabbit, Homejoy e Airbnb sono multinazionali che fanno investimenti di molte centinaia di milioni di euro l'anno. Per Slee tutto questo è negativo, dato che ai suoi occhi il capitalismo è associato a ingiustizia e diseguaglianze, ed egli parla non a caso del «nascosto libertarismo di Uber & Airbnb». Al di là del suo giudizio di valore, però, l'analisi è corretta.

In questo nuovo quadro non sorprende che grandi aziende di tipo tradizionale provino ora a entrare in tale mercato: magari non limitandosi più a produrre e vendere autovetture, ma immaginando di fornire innanzi tutto servizi. Se le aziende più consolidate si adeguano a questo scenario reinventato dall'economia condivisa, gli Stati e le corporazioni fanno invece resistenza: i primi temono l'ampliarsi del mercato nero e dell'evasione fiscale, mentre le seconde (si pensi ai taxisti) capiscono che l'universo dirigista delle licenze pubbliche sta per essere spazzato via. E così un po' ovunque sono introdotte proibizioni e limitazioni alla libertà d'impresa, mentre già si vanno apprestando norme che organizzano questi nuovi settori al fine di ostacolarne la crescita.

Siamo dinanzi all'eterno conflitto fra il vecchio e il nuovo, fra la tradizione e l'avvenire. E all'ennesima resistenza dinanzi al mercato, che prima di tutto è flessibilità e ricerca incessante della soddisfazione del cliente.

Oggi è difficile dire chi avrà la meglio, ma sembra davvero che si possa dire che quella sharing economy che avrebbe dovuto celebrare il funerale del libero mercato sta oggi creando le premesse per un suo rilancio in forme del tutto nuove.

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