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Fragomeni: "Ecco come sono uscito dal tunnel della droga"

Il pugile Giacobbe Fragomeni, vincitore dell'Isola dei Famosi, si racconta al Giornale.it

Fragomeni: "Ecco come sono uscito dal tunnel della droga"

L’Isola dei Famosi è un reality, certo, ma, chissà, forse un domani per raccontare l’Italia di questi anni torneranno buoni anche i reality. Perché ogni vittoria racconta una parte del sentimento del Paese. Nel 2008 la vittoria di Vladimir Luxuria, ad esempio, raccontò che il pubblico televisivo aveva superato alcuni pregiudizi sulla sessualità, anticipando in un certo senso il clima che si sarebbe vissuto nelle piazze con l’iter sulla legge Cirinnà, le unioni civili. Ancor prima, nel 2005, la vittoria di Lory Del Santo aveva manifestato la nostalgia canaglia per gli anni Ottanta, contrapposti alle incertezze del tempo presente.

La recente vittoria del campione di pugilato Giacobbe Fragomeni racconta forse il bisogno di normalità degli italiani, il rifiuto di ogni casta e di tutti gli accordi sottobanco, delle alleanze, dei giochi di potere. Sull’isola, anzi sull’Isola Fragomeni non si è prestato a giochi di sorta e alla fine ha trionfato con percentuali “bulgare”. Lo raggiungiamo al telefono mentre è in un grande magazzino che vende articoli sportivi.

Questo bambino che grida in sottofondo è suo figlio?

“Giacobbe junior, ha un anno e va pazzo per la boxe! Sto comprando un po’ di roba per me e per lui, che ha già le idee chiare!”.

Il nome Giacobbe ritorna… come mai?

“Giacobbe era mio nonno materno, volevo continuare la tradizione…”.

Da dove proviene la sua famiglia?

“Da Caulonia, in provincia di Reggio Calabria, sullo Jonio”.

E a Milano?

“Per me Milano è lo Stadera, la periferia oltre la circonvalla, lontanissima dal centro. A casa non ci stavo mai, sono paticamente cresciuto senza genitori. Anni bellissimi per le amicizie, ma anche bruttissimi…”

Cosa accadeva a quei tempi? Non era la Milano da bere?

“Macchè! Ogni zona di Milano aveva le sue cumpa, le compagnie. Ognuno doveva frequentare il suo quartiere e basta. Se uno di noi provava ad andare, faccio per dire, a Quarto Oggiaro, erano schiaffi di sicuro, perché ti accusavano di portar via le ragazze. E viceversa, se tipi di altre zone venivano allo Stadera erano botte da orbi!”.

1984-1985, gli anni dei paninari. Non lo eravate anche voi?

“Ma quelli erano i fighetti del centro! Noi eravamo i china, i figli dei fiori, così ci chiamavano!”.

Anni difficili anche per la droga…

“Ho iniziato a farmi le canne prima del militare, avevo 17 anni. Poi eroina, cocaina, di tutto. Quando sono entrato nel giro pesante ho perso molti amici che, per loro fortuna, non mi hanno seguito”.

Il servizio militare è stato importante…

“Nono scaglione 1988. Dopo l’addestramento in Liguria mi spediscono a Treviso, mi volevano schiaffare in un ufficio, ma non avevo proprio voglia di starci. Allora sono finito al reparto logistico, montavo i palchi per le esibizioni della banda musicale e per le manifestazioni pubbliche dell’esercito”.

La tua rinascita inizia dal mancato suicidio, si può dire?

“Era inverno, tipo gennaio 1989. Stavo tornando a Treviso dopo una licenza. Alla Centrale di Milano, mentre arriva il treno, penso “ora mi butto sotto”. Poi qualcosa mi ha fatto fare un passo indietro…”

La palestra? L’incontro con l’allenatore Ottavio Tazzi?

“Certamente mi è servita. Ottavio lo chiamavano “il nonno”, ma per me è stato come un padre! E la Doria Totip mi è servita. Mi ha allontanato dallo Stadera. Prendevo l’autobus, andavo in Duomo e poi in tram fino a via Mascagni. Ma lo Stadera è sempre il mio luogo del cuore. Ci torno appena posso. Ho ancora lì tutti i miei amici”.

Salire sul ring a 20 anni è una bella sfida…

“Non è presto per fare il pugile. Ma appena ho messo i guantoni ho detto basta alle droghe. Anche il lavoro da asfaltista mi aveva dato una mano. Ma per uscire dalla roba serve la volontà. Sennò è tutto inutile…”

E le sfida di oggi? Il chiodo a cui appendere i guantoni è vicino?

“No. Voglio vincere un titolo europeo che mi manca. Ho ancora voglia di combattere, finché sono abile e arruolato…”

Si era parlato di una palestra allo Stadera. Un progetto realizzabile?

“Ne avevo parlato con il Comune di Milano, ma poi non li ho più sentiti. Mi piacerebbe molto, ho tanto da dire e da dare ai ragazzi”

A chi la intitolerebbe?

“Visto che a Ottavio Tazzi l’hanno già dedicata, la chiamerei Giacobbe Fragomeni”.

Giacobbe suo figlio, Giacobbe una sua palestra; ma non si tratta di egocentrismo.

Fragomeni è schietto e sa che ce l’ha fatta da solo, con le sue forze e grazie al pugilato, spesso unica via di riscatto per vite violente. E questa schiettezza, questo risollevarsi, lo hanno fatto trionfare sull’Isola. Fino al prossimo round…

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