I mille volti della Vitti in una mostra sola

Il Festival del Cinema Europeo celebra l'attrice da anni lontana dalle scene

Cinzia Romani

da Lecce

Una regina del cinema italiano è in esilio al castello Carlo V di Lecce. Si tratta di Monica Vitti, alla quale il Festival del Cinema europeo, alla sua 17esima edizione, dedica una mostra evocativa d'una magnifica presenza, scomparsa dagli occhi, ma non dalla memoria di chi sa apprezzare una delle rare icone femminili dei nostri schermi. Da quando, infatti, Maria Luisa Ceciarelli, così l'interprete all'anagrafe, si è ritirata dalle scene, intorno al suo nome circola lo stesso affettuoso rispetto che circonda Mina.

Dal 2000 una malattia neurovegetativa ha risucchiato Monica nel cono d'ombra: a 69 anni, la diva nata a Roma nel 1931, ha smesso di vivere sotto i riflettori, per chiudersi in una clinica svizzera. E adesso, mentre sotto le volte del castello cinquecentesco le fotografie di lei - sexy accanto a Sordi o sorniona con Albertazzi; pazza d'amore con Giannini e svampita con Gassman - richiamano il sortilegio delle fiabe, dove la principessa né invecchia, né muore, ecco un lascito per le nuove generazioni. È quel dire e non dire che occorre usare quando si confessa a un marito tradizionalista come Sordi d'aver perso la testa per un altro. Amore mio, aiutami (1969) e giù botte lungo l'arenile. E poco importa che quegli schiaffi li avesse presi Fiorella Mannoia, all'epoca stunt girl: sullo schermo resta Monica la vittima grata e da quel film in poi, data l'eleganza con cui incassava i ceffoni, per lei fioccheranno numerosi copioni tra violenza e amore. «Fare del cinema è, per me e per Alberto, la valvola di salvezza». È in questi termini che non sanno ragionare i tutt'altro che umili attori italiani, spesso arrivati da giovani a un successo immeritato, seriosi oltre il ridicolo. La Vitti, invece, che nei modi era semplice, i suoi grandi registi li ha meritati tutti, da diva che amava studiare e impegnarsi, fin dai tempi dell'Accademia d'Arte Drammatica. «Ti farò entrare quando ti metterai il rossetto come le altre», le disse il direttore dell'Eliseo. Da Tinto Brass a Roger Vadim, da Antonioni a Steno, senza mai perdere l'anima bambina, sgranando gli occhioni nello strabismo di Venere che la rendeva attraente sotto la frangia bionda da ragazza. Perché «allegria fa rima con euforia, fantasia, andar via», scherzava lei che aveva paura dell'aereo e per questo aveva perso contratti interessanti a Hollywood: fu capace di raggiungere un set a Tunisi in taxi da Roma. Anche le foto detestava, perché le davano «un'angoscia da furto». Eppure, le immagini della mostra «Monica e il cinema. L'Avventura di una grande attrice», curata dal Centro Sperimentale di Cinematografia, le rendono giustizia, anche enigmatica e distante nel periodo dell'incomunicabilità impressa sul viso come un marchio di fabbrica da Michelangelo Antonioni, suo compagno dell'epoca, che la notò a teatro. Un'attrice così, che poteva sostenere ovunque ruoli drammatici e ruoli comici, attirò subito l'interesse del regista ferrarese, lesto a impiegarla in L'avventura e in L'eclissi.

E se la Lollo, la Loren e la Mangano fendevano l'aria con grandi curve, la Vitti svettava di naso e di piedi. «Bravissima come attrice. Ma il naso: rifare», notò Castellani dopo un provino.

Eppure Monica quel naso, per la cui plastica le produzioni avrebbero pagato, riuscì a tenerselo. E a lavorare a livelli alti: 5 David di Donatello, 3 Nastri d'argento, 1 Leone d'oro a Venezia, 1 Orso d'argento a Berlino. Tutto dimenticato, ma nella testa di lei solamente.

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