Luciano Beretta, questo sconosciuto. Sconosciuto al grande pubblico, ignaro del contributo da lui fornito alla musica leggera in veste di paroliere. Specie con Adriano Celentano, ha inanellato canzoni appartenenti al Dna di una nazione intera. Il ragazzo della via Gluck, La coppia più bella del mondo, Una carezza in un pugno, poi ancora Si è spento il sole, Viola, Sono un simpatico e mille altri evergreen: tutti brani che tengono, ben sigillato, il marchio del loro autore. Ma il «Berry», come veniva soprannominato, è stato molto di più. È stato pure un attore sopraffino, interprete ispirato di poesie in milanese e cabarettista estemporaneo, capace di tirar su un «cinema» non solo in contesti teatrali, ma più estesamente nel palcoscenico di ogni giorno.
Non poteva dunque individuarsi, per un libro a lui dedicato, titolo più azzeccato di Luciano Beretta. Una vita sul palcoscenico della vita (Editoriale Sometti). L'autore è Paolo Denti, collaboratore del Maestro ma soprattutto estimatore a prova di bomba, come si evince dalla prosa evocativa, capace di restituire la natura sognante del soggetto ritratto. Il volume gronda ammirazione ma non è un ossequio gratuito poiché, come sottolinea Denti, «l'eredità culturale da lui tramandata è lì da vedere, da sfogliare». Per sfogliarla nel migliore dei modi, c'è l'enorme villa a Garda dove il poeta si stabilì in età matura, trasformandola in una casa-museo a sua immagine e somiglianza. Foto, disegni, collage, ninnoli sparpagliati di qua e di là: un disordine che, contro ogni apparenza, aveva del metodo. Evocare l'universo interiore dell'artista più che realizzarne una disciplinata cronistoria: questo è l'obiettivo postosi dall'«allievo» in queste pagine. Fra considerazioni riguardo il talento unico di cui l'uomo era provvisto e riflessioni polemiche, inerenti il degrado antropologico nel mondo odierno, si scoprono i tasselli di una biografia caleidoscopica, per via della mutevolezza, e imprevedibilità, di colori che la contraddistinse.
Milanesissimo, Beretta nacque in via Pepe che ai tempi, come via Gluck, rispecchiava la proverbiale «Milan col coeur in man». Rischiava di finire geometra, ma i genitori, lungimiranti, avvertirono in lui il fuoco dell'arte, sostenendolo anche dal punto di vista materiale. I primi passi, è il caso di dirlo, li mosse da ballerino della Scala, con repertorio di Bartók e de Falla, sul podio von Karajan. Solo l'inquietudine può giustificare cambi di rotta artistici repentini, ed eccolo allora comprimario nel teatro di rivista, con Tognazzi e Wanda Osiris. Finché arrivò l'opportunità di scrivere canzoni, attività che definiva «più divertente di una partita a briscola». Il nuovo gioco funzionò al di là di ogni aspettativa, in compagnia di performer del calibro di Caterina Caselli e Ornella Vanoni, talmente in sintonia con il Berry che i risultati di questa intesa furono, rispettivamente, Nessuno mi può giudicare e Una ragione di più.
Ma il sodalizio più forte, si diceva, avvenne con il Clan. Non c'è dubbio che buona parte del prestigio di cui gode il «Celenta» è dovuto alle intuizioni di Beretta. Meriti indiscutibili. Forse troppo, al punto che il «capoclan» probabilmente non amava l'idea di dovergli così tanto. Sia o non sia questa la ragione, l'amicizia si ruppe e mai più si ricompose fino al 1994, anno della morte di Beretta. Il quale soffrì molto per lo strappo, anche se, come racconta Denti, voleva glissare sull'argomento.
Celentano è uno di quelli che senz'altro lo deluse, ma la scelta di trasferirsi da Milano alle sponde del Garda, nel buen retiro benacense dove visse attorniato da persone care (prima tra tutte la musicista Elide Suligoj, suo «angelo custode») era dovuta più in generale all'ambiente discografico milanese, da cui Beretta si dileguò. A Garda ricordano con molto affetto l'illustre concittadino, al quale hanno dedicato una piazza, un parco, una mostra permanente e un Premio riservato agli emergenti, istituito proprio quest'anno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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