"Il mio jazz guarda alla tradizione ma anche al rock"

Il musicista con un nuovo album in uscita e appena premiato ci racconta il suo sound

"Il mio jazz guarda alla tradizione  ma anche al rock"

Enrico Rava è un vecchio leone, uno di quelli che non si impigriscono ma che, a ottanta anni suonati, continuano a tenere alto il vessillo del jazz. Rava è appena stato eletto «miglior jazzista dell'anno» e ha pubblicato l'album Roma in quintetto con al fianco un big quale Joe Lovano e ora riprende il suo giro di concertio con Lovano, Giovanni Guidi al pianoforte, Dezron Douglas e Gerald Cleaver alla sezione ritmica. Rava cominciò a Roma negli anni Sessanta, dove andò con la sua valigia perché lì c'era il (poco) jazz che contava. A Milano c'erano i concerti, ma a Roma c'era Gato Barbieri che rimase colpito dal giovane Rava, accogliendolo subito nella sua band. Da lì iniziò una lunga carriera, ricca di sorprese e collaborazioni, che non ha intenzione di fermarsi.

Allora Rava, miglior jazzista dell'anno.

«Per fortuna ho già vinto altre volte questo premio, fa piacere, vuol dire che la tua pera è stata apprezzata a fondo».

Quali sono i trombettisti che l'hanno maggiormente influenzata?

«Moltissimi, e c'è una linea diretta tra loro che parte da Louis Armstrong e passa per Roy Eldridge fino ad arrivare a Miles Davis e Chet Baker. Ognuno ha portato qualche innovazione alla storia del jazz. Vorrei soffermarmi su Miles, ogni suo nota è profondissima. Era un genio del racconto e ha scritto alcune delle pagine più belle del Novecento. Del resto veniva da esperienze eccezionali come quella con Charlie Parker o il quartetto con Coltrane».

E Chet Baker?

«Il suo sound era di una bellezza assoluta, soprattutto nei dischi del '52 - '53 con Gerry Mulligan poi, quando cominciò a diventare tossico, perse molto del suo lirismo. Fu dipinto come un personaggio maledetto e non si riprese più».

Alcuni artisti negli anni Sessanta sostenevano che la droga espandesse la mente e aiutasse a suonare meglio.

«Questa è una grandissima balla, e vuol sapere qual'è un'altra colossale panzana?».

Me lo dica.

«Che i musicisti di rock sono meno bravi tecnicamente di quelli jazz. Ci sono alcuni rocker che sono formidabili: penso per esempio ai Queen, grandissimi artisti».

A lei piace molto la musica di tutti i generi, non è un talebano del jazz.

«Naturalmente il jazz è la mia vita. Ascolto sempre Louis Armstrong che negli anni Venti, con i suoi Hot Five, ha rivoluzionato la storia della musica, così come amo le ardite evoluzioni di Dizzy Gillespie, ma mi piace anche ascoltare Michael Jackson. E trovo che una delle più belle musiche di sempre sia il Terzo Movimento del Concerto in Sol di Ravel».

Oggi molti definiscono il jazz Black American Music.

«Penso che jazz sia ancora la definizione migliore per definire questo tipo di musica. Black American Music non è una definizione precisa. Nessuno nega che il jazz abbia radici afroamericane, ma lo spettro che lo compone è molto più vasto. A New Orleans, dove tutto è cominciato, c'era un crogiolo di generi e stili e molte stelle della prima ora erano bianchi, da Frankie Trumbauer - maestro di Lester Young - a leon Roppolo passando per Eddie Lang, grande innovatore della chitarra che altri non era che il siciliano Salvatore Massaro».

E c'era anche il blues chitarristico degli anni Venti, o il ragtime.

«Sono alle origini del jazz, soprattutto il blues acustico è musica afroaemericana.

Ma per me blues e ragtime sono troppo uguali a se stessi: ascolti un brano e li hai sentiti tutti. Io preferisco la vivacità del jazz, la sua libertà. Se potessi salvare un solo brano, da mandare nello spazio o su un'isola deserta, sceglierei Potato Head Blues di Louis Armstrong, lì c'è tutta l'essenza del jazz».

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