Cultura e Spettacoli

Il perfezionista che diventò "uno di famiglia"

Eccelleva in ogni ambito artistico eppure non si montò mai la testa. E tutto il Paese lo adorava

Il perfezionista che diventò "uno di famiglia"

Ai suoi allievi si divertiva a spiegare come si fa una «carrettella». Come cioè, in gergo teatrale, si fa scattare l'applauso per l'attore che esce di scena. Che «carrettella» inattesa e dolorosa, ha fatto stavolta Gigi Proietti: l'applauso che proprio ieri avrebbe festeggiato i suoi ottant'anni ha accompagnato, invece, l'ultima uscita di scena dell'ultimo dei mattatori. Chissà: forse anche questo beffardo coup de theatre s'intona allo stile straripante ma anche pudico - che è stata la sua vera grandezza di artista. E di uomo. Una volta giù dal palco, infatti, quell'egocentrico vulcanico diventava umile, generoso, disponibile. Che paradosso: da una parte il travolgente successo del suo spettacolo-bandiera, quell'A me gli occhi, please esploso nel 1976 e giunto alle oceaniche ovazioni dello stadio Olimpico di Roma nel 2000; dall'altra il disincanto tutto romanesco con cui la madre l'ammoniva «a non montarsi la testa» per quel trionfo: in mezzo ai giubilanti entusiasmi di Fellini, Pertini o De Filippo, all'orgogliosa domanda del figlio «Ti sono piaciuto, ma'?» - lei replicava, laconica e salutare, «Abbastanza».

Eppure, di motivi per montarsi la testa, l'inarrestabile Gigi, ne avrebbe avuti. Uno che sapeva far tutto; e tutto ai massimi livelli. Prima cantante nei night club, «dove si serviva champagne fatto col vino e l'idrolitina». Poi doppiatore oscuro, ma già incredibilmente poliedrico. Quindi giovane attore underground «doverosamente con la puzza sotto al naso. Recitavo Sofocle, Brecht, Beckett, Moravia; e quando Garinei e Giovannini mi chiesero di sostituire Modugno in Alleluja brava gente temevo di vendermi». Eppure lui, che suscitava entusiasmi fuori misura, il senso delle proporzioni non lo perse mai. «Anziché montarmi la testa, quel successo me la smontò. Non riuscivo a reggerne il peso: mi chiusi in casa, mi ficcai a letto». Un pudore della popolarità raro, che l'ha sempre protetto dal narcisismo autoreferenziale della maggior parte dei colleghi. Se lo definivano l'erede di Petrolini, lui scantonava. Ma una volta esploso, nulla l'ha più fermato. E poi, su tutto, c'è il teatro. Perché Proietti è stato soprattutto questo: l'inventore in Italia dell'one man show. Mai nessuno prima di lui - neppure l'amico Vittorio Gassman - si era esibito in totale solitudine, senza scene né costumi, né copione. Insomma: ad uno così in America avrebbero dato le chiavi del Radio City Music Hall. In Italia, sciaguratamente, gli hanno fatto chiudere il Laboratorio (dove formò Elio Germano, Enrico Brignano, Giorgio Tirabassi, Chiara Noschese) e poi tolto la direzione del teatro Brancaccio (che ora chiedono gli sia intitolato). Anche qui, però, ecco l'eleganza della reazione: invece di polemizzare lanciò il Globe Theatre.

Perché del romano vero Proietti aveva il cinismo, ma di pasta più morbida; la dissacrazione beffarda, ma senza l'aggressività. E di certo non fu mai volgare: il suo «Nun me rompe er ca'» non scandalizza nessuno. Anche per questo i romani (e non solo) lo adoravano.

«Quando tornai dov'ero nato, per godermi la mia fama, invece dei complimenti il parroco don Parisio mi appioppò uno scapaccione: Ah brutto puzzone esclamò - solo adesso te rifai vivo?!».

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