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Il privilegio di passare un'estate a lavorare con lui

Il privilegio di passare un'estate a lavorare con lui

Ho sempre saputo che la sua amicizia era un dono. Tanto più importante e da custodirsi in silenzio iniziatico, quanto più ora avanzano registi unicamente capaci di drogare l'immagine, quindi lo spettatore, con lo smalto sul nulla, in mancanza di contenuti spirituali. E lui, Ermanno Olmi, che ho conosciuto trent'anni fa per il tramite del comune amico Tullio Kezich, altra persona di notevole spessore umano e culturale, di anima viveva. E faceva vivere gli altri, senza dimenticare un fattivo pragmatismo bergamasco, che sapeva infondere ai giovani in grado di seguirlo, a partire dai figli Betta e Fabio.

Quando egli incontrò La leggenda del Santo Bevitore di Joseph Roth, libro a lui congeniale, volle possederlo fino in fondo. Aveva voglia di reinventarlo in mille particolari, che il racconto sorvola. Era il tono alto del Bevitore a sedurlo: il racconto di Roth parla di un miracolo, di Dio e di ubriaconi e la qualità poetica di quel testo non gli sfuggiva. «Il racconto di Roth è come il sorriso della Gioconda: ti rendi conto che hai davanti un fatto talmente magico e misterioso che non pensi più di essere di fronte a un quadro», mi spiegava con la consueta dolcezza, mentre gli chiedevo come mai proprio quel libro, privo dei suoi riferimenti abituali: il mondo del lavoro, l'autobiografia... E poi c'era da girare, in parte, con attori professionisti, in inglese e in francese, lingue che Ermanno praticava poco. Senza contare che spostarsi all'estero, per montare un set a Parigi (il che fece), non gli era congeniale.

Era l'estate del 1988 e camminavamo sui prati intorno a casa sua, ad Asiago, discutendo di come avrei dovuto rifare la traduzione dal tedesco del Santo Bevitore, già esistente per i tipi di Adelphi, ad opera di Chiara Colli Stauder. Resa italiana impeccabile, ma Olmi non faceva il regista e basta, assumendo un testo scritto da altri per metterlo in scena: doveva assumere il nucleo poetico del libro come fosse suo. Per diventare proprietario del racconto, voleva una nuova versione italiana che facesse da base alla sceneggiatura di Kezich e dello stesso Olmi. Nel massimo rispetto della pagina, mi misi al lavoro, contagiata dall'entusiasmo del regista e dalla cordialità della sua famiglia: la moglie Loredana preparava piatti freddi, alla sera, parlando di cinema e vita quotidiana; la casa di Rigoni Stern così vicina, nell'altopiano, che arrivavano piatti cucinati anche da lì, come usava, tra amici, in tempi più affettuosi. Una agapé di cibo e di parole, mentre il Maestro esaminava la cassetta speditagli da Rutger Hauer. Olmi l'aveva visto in Blade Runner e ignorava che l'attore avesse sempre fatto il mostro, ma gli piacevano i suoi occhi azzurri, la purezza del suo sguardo: doveva essere lui il clochard Andreas che si arrende alla fede.

Poi venne il momento del librone: Ermanno ritagliò le 60 pagine del racconto, le tagliò in scene e le incollò in forma di copione, ricoprendole di note, appunti, promemoria, sottolineature e disegni. È su quelle pagine che è nato il film, mentre l'estate se ne andava e a me era toccato il privilegio di vedere come vive e lavora un Maestro.

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