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Quei quadrumviri «ribelli» condotti dal Duce all'oblio

I protagonisti, cent'anni fa, nella presa del potere furono presto messi da parte. Ecco come e perché

Quei quadrumviri «ribelli» condotti dal Duce all'oblio

L'immagine canonica che congela quel finale di ottobre 1922 è il dipinto di Giacomo Balla intitolato proprio Marcia su Roma. Il quadro, più che raffigurare la prova di forza verso la capitale, blocca sulla tela, come un fermo immagine televisivo, la sfilata che si tenne il 30 ottobre 1922, in seguito alla nomina di Benito Mussolini a capo del governo. Iperrealista nella tecnica, tracciato a un decennio dagli eventi, nella precisione del dettaglio raffigura i pesi e le forze politiche del 1922, che a quel tempo erano ormai completamente stravolti. Mussolini domina la scena con aria spiritata e messianica, la sua aura istrionica è ben più forte che nelle foto scattate nel '22, dove si coglie più che altro la sua tensione. Eppure ancora non oscura i quattro uomini che gli stanno ai lati: Michele Bianchi, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo.

Ma quando Balla realizzò la tela questi quattro protagonisti erano stati tutti messi su binari morti del complesso sistema di regime. Un'emarginazione impossibile da prevedere, al momento della conquista del potere. Perché sia accaduto non è difficile spiegare. Fu una delle tante manovre perfettamente riuscite di Mussolini nella perpetrazione del suo potere personale. Impegnato a costruire il proprio mito, capì che era indispensabile che fosse lui ad apparire l'unico stratega della conquista della capitale, il vero organizzatore della Marcia. Da allora i quattro gerarchi, con la limitata eccezione di Balbo (ben studiato da Giordano Bruno Guerri) sono finiti sullo sfondo della vicenda, anche a causa di una storiografia molto centrata sul Duce, più che sul fascismo in generale.

Ora Mauro Canali e Clemente Volpini mettono sotto la lente di ingrandimento, complice il centenario, i quadrumviri in Gli uomini della Marcia su Roma (Mondadori, pagg. 230, euro 22). Ne esce un racconto che mette in luce le plurime anime del fascismo delle origini, il fatto che, per molti versi, Mussolini fosse un princeps inter pares. Insomma il volume, pensato in modo divulgativo, è un bello strumento per avvicinare la complessità magmatica che generò il Ventennio.

Michele Bianchi, nel quadro di Balla avanza tenendo sotto braccio un fascio sfuso di fogli, quasi stesse portando in parata il lavoro d'ufficio. È il quadrumviro che condivide con Mussolini il percorso nel socialismo e nel sindacalismo più duro e puro. È per molti versi il rivoluzionario di professione del gruppo. Propaganda, stampa, questioni sindacali, la trasformazione del movimento in partito. Se Mussolini è il volto mutevole e istrionico del fascismo, Bianchi sarà quello che si occuperà di indirizzare il partito. E nel momento dell'oscillazione tra destra e sinistra del fascismo delle origini sarà il primo ad avere le idee chiare: «Bisogna avere il coraggio di dire che se le conquiste economiche del proletariato non saranno affondate nel granito di una prosperità industriale e commerciale, esse non potranno che essere effimere». Non voleva che il fascismo diventasse «un'assemblea di demagoghi». Ce n'era abbastanza perché Mussolini, molto più tattico e propenso a una propaganda piglia tutto, lo considerasse spigoloso e poco furbo, confinandolo ai margini con incarichi ministeriali. Morì nel 1929.

Di tutt'altra pasta Cesare Maria De Vecchi, coriaceo ex ufficiale e profondamente monarchico. Senza di lui sarebbe stato impossibile il successo del fascismo in Piemonte. Ma anche in questo caso il rapporto con Mussolini fu decisamente burrascoso. Il capitano De Vecchi è volitivo e colto, chiaramente reazionario. Mussolini per tener conto dei suoi malumori è costretto a manovre repentine, anche perché De Vecchi a Torino riceve 43mila e 624 preferenze, alle elezioni del maggio 1921. Quando, qualche giorno dopo, Mussolini in un'intervista afferma che il fascismo è tendenzialmente repubblicano e che snobberà la seduta reale, De Vecchi va giù durissimo: «Se Mussolini è pazzo da legare... sta a voi decidere di farlo rinchiudere in manicomio». Si arriva a un accordo dopo due giorni di discussioni al consiglio nazionale di Milano. Ma quando De Vecchi torna a Torino qualcuno prova a piantargli addosso due colpi di rivoltella... Dopo la Marcia venne blandito con incarichi e governatorati.

E se De Vecchi fu la garanzia dei monarchici il generale De Bono è stato il quadrumviro di garanzia dei militari. Spesso descritto come un vecchio onusto di medaglie ma non particolarmente brillante, il tirchissimo e ipocondriaco pluridecorato era in realtà una mente fine e tatticamente lucida. Appoggiò il fascismo e gli affari sui residuati bellici, cercò una grande occasione e la trovò. Venne poi fagocitato dal regime inciampando anche, come capo della polizia, negli strascichi del delitto Matteotti. Ne uscì ridimensionato e impegnato sul fronte coloniale. Il 25 luglio 1943 si convinse di avere un'altra occasione per ottenere il centro del palcoscenico, come nel 1922. Ne ottenne un plotone di esecuzione a Verona. Pare che dopo essere stato condannato a morte dai giudici fascisti abbia commentato: «Mi fregate di poco, ho settantotto anni».

E poi Balbo, di cui Canali e Volpini evidenziano soprattutto le caratteristiche di organizzatore militare. Vicino agli agrari, disposto a sporcarsi le mani arrivando tranquillamente sino all'omicidio, il futuro trasvolatore, tra il 1921 e il 1922 controlla molto più il braccio armato del fascismo di quanto faccia Mussolini. È probabilmente il più carismatico dei quattro. Sarà in effetti il più temuto dal Duce. Fatto noto sino ad alimentare leggende sulla volontarietà del fuoco amico che ha abbattuto il suo aeroplano a Tobruch, il 28 giugno 1940. Eppure il conflitto tra i due poteva avere un solo vincitore. Per usare le parole di Bottai, Balbo amava Mussolini «d'un amore furioso e stizzito». E nella stizza lo accusava di piccineria e di meschina furberia, una furberia di seconda mano. Eppure, chiosa ancora Bottai, «ci cascava lui, proprio lui, più d'ogni altro: che gli bastava un gesto, una parola, una moina del Capo, per andare in visibilio o per marciare alla più rischiosa impresa».

Balbo e gli altri marciarono, e poi furono messi ai margini. Quando Mussolini andò al Quirinale con in tasca la lista dei ministri non vi era traccia dei quadrumviri.

Ma i risultati tragici del loro marciare durano per un ventennio.

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