"Il sacrificio del fuoco", un libro di 50 pagine che coglie l'orrore meglio di mille discorsi

Scritto dal cristiano Goes, questo capolavoro descrive il peso del ricordo. Oggi tutti parlano della Shoah ma pochi vanno oltre la retorica

"Il sacrificio del fuoco", un libro di 50 pagine che coglie l'orrore meglio di mille discorsi

l sacrificio del fuoco è quello definitivo, oltre il quale non resta che cenere, grigio, nero, niente. È anche una santissima aspirazione che percorre tutta le Scritture: ovvero, è la speranza che con l'espiazione le immani brutture, l'inconfessabile crudeltà, i più inverosimili peccati dell'uomo possano essere mondati col sacrificio. E ancora: è la speranza che possa pur venire un giorno in cui sante lingue del fuoco non brucino il sacro cespuglio che testimonia le parole di Dio a Mosè, e suggella la legge. Ovvero in cui l'espiazione si sia già compiuta e resti solo la legge.

Scritto da un pastore protestante, Albrecht Goes, che durante la Seconda guerra mondiale fu persino cappellano militare e poi decise di ritirarsi nel puro mestiere della scrittura, il libro edito dalla Giuntina non potrebbe celebrare meglio, nel titolo e nel significato, il Giorno della Memoria. Il sacrificio del fuoco è un piccolo libro fulminante, di quelli che aprono nuove strade di comprensione di un evento cui sono state dedicati milioni di pagine e di discorsi.

Il Giorno della Memoria è un giorno che purtroppo sforna centinaia di testi e discorsi sulla necessità, ovviamente osservata da chi parla o scrive, di ricordare: spesso questi in realtà altro non sono che auto-celebrazioni di una propria generica avversità al male assoluto della Shoah senz'altro impegno che quello di versare due lacrime di colore opaco. Intanto gli attacchi antisemiti nel mondo seguitano a inerpicarsi su per le statistiche superando ogni aspettativa, e la imbarazzante quanto sorprendente pretestuosità anti-israeliana è sempre più anti-ebraica. Non importa, resta valida la necessità di «ricordare», e non è poi chiaro cosa si debba fare del ricordo. Solo poche ore fa, i capi di un gruppo studentesco dell'università di New York hanno dichiarato che sono d'accordo con il terrorista che ha schiacciato con un camion quattro ragazzi a Gerusalemme, e negli elenchi degli attacchi terroristici nessun leader mondiale, nemmeno il Papa, cita anche gli eccidi che hanno luogo in Israele. Donne, bambini, gente per la strada, parallelo al sangue dei quali corre un diluvio di parole di odio contro gli ebrei nelle discariche islamiste e naziste. Ma nessuno se ne fa carico, nessuno è pronto a combattere, o a espiare.

Invece questo libretto di 50 pagine fa capire che la morte violenta degli ebrei è un problema non solo del «nazista» di turno, ma di ogni persona creata. Che o sei in condizione di combattere o, se sei un essere umano, desideri espiare. Insomma, che non si può andare avanti dopo la Shoah come se non avessimo imparato da quella che l'essere umano è un lupo. Lo scrittore e la protagonista non sono ebrei, eppure il dolore è tutto quanto su di loro, e le poche pagine, le pochissime parole del libro (fatto rivoluzionario, in genere si chiacchiera molto sull'argomento) non perdono una virgola di tempo per trasferire su ciascun lettore come una bomba l'impossibilità di dire e basta, la futilità di dichiararsi triste o persino disperato, e tanto meno di promettere che questo non avverrà «mai più». La memoria, se c'è davvero e non è simulata, e qui è chiaro una volta per tutte, è sovrastante rispetto alla capacità umana di elaborarla, non c'è che «il sacrificio del fuoco» per segnalare che si ricorda la Shoah, e anche quello tuttavia non riesce. Perché la protagonista lo desidera, ma gli ebrei la salveranno. Persino Dio non lo vuole, o non se ne occupa dopo che gli uomini hanno segnato l'universo con un'ignominia definitiva.

La protagonista del libro è una cristiana protestante tedesca, una signora cui viene imposto l'incarico, nel negozio del marito, di servire il Reich come macellaia degli ebrei, ovvero di distribuire la pochissima carne concessa il venerdì dalle carte annonarie. La signora Walker così viene a contatto, dall'esterno, non come ebrea ma come cristiana, con le persecuzioni degli ebrei. La novità illuminate del libro è forse questa: non sono gli ebrei che raccontano la loro persecuzione, ma guarda la storia, stupefatto, un occhio estraneo. Quindi qui non si vede, ma solo si intuisce, il destino di sterminio nei campi di concentramento: tutto si consuma prima nell'odio e nella crudeltà degli stolti, cuoce, si trasforma in disprezzo, in disumanizzazione, in vicende di carnefici idioti e di gente per bene, signore borghesi, rabbini, e soprattutto nella storia di una giovane donna che aspetta un bambino e che è destinata con la sua creatura non nata al macello. Il nazismo, lo si vede bene, non è nel libro imposizione dall'alto, non è ordini rauchi, disciplina militare, «questi erano gli ordini» alla Eichmann. È trasformazione in boia di centinaia di migliaia, milioni di tedeschi: è la loro vocazione umana a questo, nazisti che un tempo forse erano persone e che adesso, nella macelleria dove al venerdì sera, prima di Shabbat, gli ebrei perseguitati raccolgono il loro misero cibo, educano la loro crudeltà allo sterminio di neonati, vecchi, venerandi signori religiosi o meno, che potrebbero essere i loro maestri e i loro datori di lavoro o anche persino i loro genitori.

Una volta mio padre Aron Alberto Nirenstein, storico della Shoah, polacco, che faceva il corrispondente per il giornale israeliano Al ha Mishmar, a una conferenza stampa di Giovanni Paolo II, letteralmente lo apostrofò nel generale imbarazzo un po' in polacco e un po' in italiano come faceva lui, senza nessuna cerimonia, con durezza e dolcezza come un uomo che le ha viste tutte, e con l'aria di chi è molto stanco gli chiese: ma come avete fatto, voi, polacchi come me, a essere testimoni e protagonisti senza reagire, di tutto quello che è successo a casa vostra, come avete sacrificato i nostri tre milioni di ebrei tormentandoli e poi incenerendoli? Il Papa non reagì affatto. So che si era pronunciato varie volte sulla questione Olocausto, e che fu lui a riconoscere Israele, finalmente. Ma mio padre aveva ragione a chiedergli in una circostanza non cerimoniale come quella e di fronte a un sopravvissuto come lui, che aveva perduto tutta la famiglia, di rispondere con un singhiozzo, un urlo, una lacrima. Di ricordare veramente, non in modo cerimoniale. È un gesto non rituale quello che può affermare che la memoria è appunto, a sua volta, riferita a un evento che non si vuole sia parte del cerimoniale. È dopo «l'episodio della carrozzina» in cui la signora Walker misura l'abisso totale, il dolore irrecuperabile in cui è caduta l'umanità, che la protagonista decide per il sacrificio del fuoco. Saranno gli ebrei a comunicarle di nuovo la necessità di vivere.

La signora resta, nella storia, sola. Nonostante la rabbia di chi sostiene che si parla troppo di Shoah e lo si fa per compiacere gli ebrei, è vero il contrario. I sopravvissuti, in solitudine, hanno indicato l'eccesso, oltre la volontà divina, dell'accaduto, hanno visto il cespuglio che arde senza consumarsi; non c'è stato un sacrificio del fuoco, neppure concettuale, adeguato, tanto che ha potuto svilupparsi tranquillo l'antisemitismo omicida, di nuovo. Nessuno si è alzato in piedi, all'Unione europea, o all'Onu, o negli Stati Uniti, sostenendo il diritto degli ebrei e quindi di Israele a vivere senza odio e violenza da parte dell'antisemitismo islamico.

Al contrario, la memoria si è talmente falsata da arrivare ad attribuire a Israele talvolta le caratteristiche degli aguzzini degli ebrei. Non basta dire che questo è disgustoso. Se si pretende di ricordare, che lo si dimostri. La prova è ancora quella del fuoco. Che qualcuno dimostri che ricorda davvero, oggi.

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