Ci sono narrazioni storiche che per fascinazione e influsso culturale si rivelano essere delle pietre miliari. Magari, col passare del tempo, non si possono più considerare la summa più aggiornata sull'argomento. Però mantengono il loro fascino e ci fanno capire qualcosa non solo sull'epoca di cui trattano ma anche sull'epoca in cui sono state scritte.
È il caso del ponderoso saggio di James Bryce appena pubblicato da D'Ettoris Editori: Il Sacro romano impero (pagg. 592, euro 30,90). Bryce (1838-1922) è stato uno degli intellettuali più importanti dell'Inghilterra vittoriana. La sua formazione era essenzialmente giuridica. Dopo i suoi studi a Heidelberg e a Oxford si addottorò nel 1870 in Civil Law. Divenendo poi Regius Professor di Civil Law a Oxford sino al 1893. Nel frattempo veniva coinvolto sempre più nelle questioni di governo del Regno Unito e in svariate attività diplomatiche che culminarono, nel 1913, nella sua nomina ad ambasciatore negli Usa (in seguito entrò anche alla camera dei Lord). Basterebbe questo a fare di Bryce - a lui si deve la prima definizione, fondamentale in scienze politiche, della differenza tra costituzioni rigide e costituzioni flessibili - un intellettuale di prima grandezza. Ma a fianco degli studi giuridici, dei lunghi viaggi esplorativi in giro per il mondo (come la scalata dell'Ararat), Bryce coltivò una profonda passione per gli studi storici. Il risultato di questa passione fu proprio il volume sul Sacro romano impero appena ripubblicato. Bryce vi lavorò per decenni dal 1862 al 1904, pubblicandone svariate edizioni. Il saggio parte dalla caduta dell'Impero romano per tracciare la parabola dell'idea di Impero attraverso il Medioevo e la Storia moderna.
La narrazione è resa scorrevole dalla capacità letteraria di Bryce, qualità che gli veniva riconosciuta anche dai più titolati storici «professionisti» della sua epoca, e consente al lettore di attraversare epoche diverse e di riuscire ad affrontare anche temi di storia del diritto impegnativi senza noia. Bellissimi, a esempio, i passaggi in cui chiarisce come abbia fatto l'idea imperiale a sopravvivere attraverso i secoli più tumultuosi del Medioevo e a riprendere forza nel regno dei franchi. «Il capo spirituale della Cristianità non poteva fare a meno del capo temporale; senza l'Impero romano non vi poteva essere una Chiesa Romana, giacché... gli uomini non potevano separare di fatto ciò che era indissolubile nel pensiero: il cristianesimo sembrava stare o cadere con il grande Stato cristiano, non erano che due nomi per la stessa cosa».
Ma non è questo il pregio maggiore de Il Sacro romano impero, semmai la capacità che ha Bryce di raccontare la storia di un'idea politica. Ovvero quella di una istituzione superiore, capace di una preminenza non solo militare ma morale, che possa portare una pace duratura.
Quell'idea franò, nonostante i sogni di uomini come Dante o Carlo V, ma Bryce ne spiega il fascino e il senso profondo. E ne chiarisce i lasciti per la contemporaneità. Quei lasciti che, ad esempio, un'Europa unita solo nella burocrazia e nella moneta, e dove i nazionalismi tornano dirompenti, sembra non cogliere.
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