L’emancipazione femminile può passare anche per i tasti di una macchina per scrivere. O dal sogno di diventare segretaria, lavoro che adesso non scalderebbe gli animi di nessuno ma che, mezzo secolo fa, era visto, da una donna, come la porta da aprire per costruire la propria indipendenza. È quello che si immagina il gustoso "Tutti pazzi per Rose" da giovedì nelle sale, che, con colori pastello e atmosfere rassicuranti della grande tradizione delle commedie americane, proietta lo spettatore nel turbinoso passaggio dagli anni Cinquanta ai Sessanta. Per una ragazza di provincia, come la Rose del titolo, spesso i destini erano pianificati dalla famiglia e si discostavano raramente da quelli di casalinga docile e moglie fedele. Però, è proprio in quel periodo che le donne iniziavano a mettere il naso fuori dal proprio paese e a lottare per una vita con finale diverso, dove libertà e parità dei sessi non erano solo mere utopie.
Così, presi per mano dall’esordiente Régis Roinsard, che conosce molto bene i meccanismi da screewball comedy, seguiamo le vicende di Rose Pamphyle (Déborah François già vista ne La voltapagine) una ventunenne che, nel 1958, vive in un piccolo villaggio della Normandia. Il padre, burbero vedovo proprietario di un emporio, l’ha promessa in sposa al figlio del padrone della locale autofficina. Un buon partito, insomma, come se gli affari di cuore fossero solo un problema di stabilità economica. Rose ha un sogno diverso. Va così a Lisieux e, nonostante la sua goffaggine, riesce a farsi assumere, come segretaria, da Louis Echard (l’affascinante Romain Duris de Il truffacuori) titolare di una agenzia di assicurazioni.
A colpire l’uomo non è l’avvenenza della ragazza (una versione Doris Day acqua e sapone) ma il suo dono innato: scrive velocemente, anche se solo con due dita, con la macchina per scrivere. In lei, il tormentato Louis vede la possibilità, con il dovuto allenamento, di iscriverla alle gare di dattilografia che, all’epoca, avevano importanza e seguito (con tanto di copertine sui settimanali popolari), emblema di una società che, dopo il tormentato dopoguerra, aveva fretta di riprendere a correre. L’uomo la ospita a casa sua per allenarla e istruirla, non senza frizioni e contrasti. Arrivano però i titoli: prima quello regionale, poi il nazionale, anche se il sogno di entrambi è trionfare in quello mondiale, da sempre detenuto da una dattilografa Usa. Naturalmente, è una commedia rosa e la ragazza, attratta dal suo mentore, non tarderà ad innamorarsene. Lui, però, reduce dalla seconda guerra mondiale, ha visto la sua ex fidanzata (la brava Bérénice Bejo, fresca di vittoria a Cannes) finire nelle braccia del suo migliore amico. Questo gli impedisce di lasciarsi andare nei sentimenti, rischiando così di mandare tutto all’aria, amore e gloria.
Una simile trama fa subito venire alla mente un capolavoro come My Fair Lady e non è un caso che il film sia tutto un richiamo ad Audrey Hepburn, non solo per trucco ed eleganza della protagonista ma anche con omaggi espliciti come la presenza di un poster della diva che Rose appende in camera. Per certi versi, la pellicola richiama alla mente un altro come The Artist e non solo per la garbata ambientazione. Lì ci è voluto coraggio a girare un muto per raccontare l’avvento del sonoro nel cinema, qui si usa la desueta dattilografia per parlare di emancipazione. Montaggio perfetto, certosina ricostruzione nei dettagli degli anni Cinquanta e colonna sonora assolutamente azzeccata (con immancabile «Cha cha cha della segretaria») sono mixati alla perfezione.
Con in più due protagonisti, perfetti ed empatici, che non sbagliano una espressione anche quando si finisce, inevitabilmente, nel melenso. Ironia e malinconia, eleganza e spensieratezza, dolcezza e fascino, rigorosamente made in France. Un tuffo nel passato per meglio apprezzare il nostro presente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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