Spike Lee fa venire i brividi con «Katryna»

Pedro Armocida

da Venezia

La durata è monstre: 255 minuti di documentario pari a circa quattro ore e mezza sull’uragano Katryna che lo scorso anno ha sconvolto New Orleans. Ma se dietro la macchina da presa di When the Leeves Broke. A Requiem in Four Acts siede un genialoide come Spike Lee allora si può stare tranquilli che non mancheranno motivi di interesse. Nei quattro atti di Quando si sono rotti gli argini, presentato nella sezione Orizzonti, il regista afroamericano realizza un affresco a tutto tondo su cosa ha significato il passaggio di quel devastante uragano. E lo fa ricorrendo ad agghiaccianti immagini di repertorio e a decine di interviste a coloro che sono dei veri e propri sopravvissuti, senza però mai ricorrere all’abituale voce fuori campo narrante (una bella lezione per gli pseudomaestri del documentario odierno come l’ingombrante Michael Moore).
Lontano dall’inchiesta giornalistica, anche se utilizza spesso servizi televisivi, Spike Lee non fornisce tanto i numeri sull’effetto del cataclisma, quanto piuttosto si sofferma a raccontare ciò che le persone hanno realmente vissuto e al totale clima di disorganizzazione a livello regionale e nazionale. «Un anno fa ero proprio qui a Venezia - racconta il regista - e invece di andare al cinema ero rinchiuso in albergo a guardare immagini televisive che non riuscivo a capacitarmi venissero dagli Stati Uniti. Proprio in quel momento mi è venuta l’idea del documentario».
Nel film viene presa pesantemente di mira la Fema (la Protezione civile americana) e di conseguenza anche il presidente Bush che in tv ne elogiava il lavoro. Il dato di fatto è che per alcuni interminabili giorni migliaia di persone non hanno ricevuto alcun tipo di assistenza dalle autorità. I sopravvissuti di New Orleans, ed è questo che sorprende pensando alla potenza degli Stati Uniti, sono stati lasciati in balia di loro stessi con il paradossale episodio dell’arrivo in città per prima della polizia a cavallo canadese.
Insomma siamo ben lontani dalla chanson de geste di Oliver Stone sui poliziotti newyorchesi intrappolati sotto le due torri, a New Orleans secondo Spike Lee «s’è svelata la grande contraddizione americana, la nazione più ricca e potente del mondo ma con una povertà massiccia. Non c’è ragione perché da noi ci sia chi soffre la fame ma questo accade e gli States sono bravissimi a nascondere questi aspetti. Qualcuno ha detto che a Bush non interessano i neri ma secondo me poco gli importa anche dei poveri bianchi».
Bianchi e neri appunto, il leitmotiv di tutto il cinema di Spike Lee attratto stavolta da una città come New Orleans composta per il sessanta per cento da afroamericani. Molti di loro posseggono poco o nulla, figurarsi un’automobile, e così non hanno potuto seguire l’ordine di evacuazione emesso poche ore prima dell’arrivo dell’uragano. Ma il peggio, ci racconta il film, è avvenuto dopo quando, come dice il titolo, si sono rotti gli argini che hanno aggiunto l’acqua del lago a quella della tempesta. A quel punto c’è stata la vera evacuazione della popolazione, con l’utilizzo finalmente di mezzi pubblici, che ha portato un cambio sociale epocale a New Orleans.

Attualmente più del settanta per cento della popolazione della città è ospitato in altri Stati. Molti si stanno trovando bene e il rischio è che l’affascinante e mitica miscela della città del jazz possa rimanere solo un ricordo.

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