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Mandrake, il mancino di Dio vissuto sempre a sinistra

Era magico. Amato da Moratti, sopportato da Herrera, con lui fu Grande Inter. Se n'è andato tradito dal cuore

Mandrake, il mancino di Dio vissuto sempre a sinistra

Dicevano i ragazzi di quell'Inter, targata 1985-'86, che, nonostante i 40 anni passati, il piede era ancora da foglia morta. Quando Corso provava a tirare punizioni il pallone frusciava via, come sentir passare un venticello secco. E non sbagliava mai. Mario Corso era il loro allenatore, chiamato dal presidente Pellegrini a sostituire Castagner. Non gli andò male, ma non gli restò la panchina. Se la prese Trapattoni. Sulla panca Mariolino era rimasto Mariolino. Reagì al modo solito, uno sguardo che non sapevi definire: appena alzato dal letto o una goccia di veleno stemperata dall'ironia?

E oggi Mario Corso con quale sguardo avrebbe accettato la notizia del suo addio al mondo? Poco più di un mese fa passeggiava per City Life a Milano. Diceva che i malanni cominciavano a dar fastidio. Se n'è andato perché il cuore dev'essere stato perfido. Non gli ha lasciato toccare il rintocco dei 79 anni: li avrebbe compiuti il 25 agosto. Veniva da San Michele Extra dove l'Inter aveva sempre pescato bene, portato a Milano con un colpo da maestro di Giulio Cappelli, uno dei famosi talent scout: lo impressionarono le orecchie a sventola, poi un doppio passo alla Biavati. La voce era esile, un po' stridula, negli anni si fece vagamente chioccia: comunque un marchio di fabbrica. Cappelli offrì 3 milioni e ne aggiunse 10 per il portiere Da Pozzo e il centrocampista Guglielmoni, definito la stella del futuro. Ma ci volle poco perché, un giorno, un ct azzurro delle giovanili confidasse a Sandro Ciotti: «Il vero fuoriclasse è quel mancino magro».

Quella di Mariolino, detto il piede sinistro di Dio o anche Mandrake, («Soprannome che preferisco perché non c'entra con il calcio ed è stato uno dei miei eroi nei fumetti» raccontò), ecco quella di Corso è stata una vita calcistica qualche volta in controsenso, altre volte in senso unico, ma tutta a sinistra: il numero 11 sulle spalle, che pareva ingiusto per un 10 naturale; un solo piede disponibile che smentì una profezia di Felice Borel, campione della Juve eppoi giornalista. «A pallone si gioca con due piedi»; talvolta un irritante soffermarsi sulle zolle d'ombra nella parte di sinistra del campo quando la vena non correva. Lasciava correre il pallone. «Sivori faceva gol, lui li faceva fare: inimitabile» sintetizzava Fulvio Bernardini che stravedeva per lui. Non era nemmeno facile aver rapporti sempre idilliaci: con Mazzola si raccontano 5 anni di intemperie, pur se tutto venne ricondotto a normali divergenze di vedute. La famiglia Moratti lo amava in ogni componente. E il mago Herrera che, ceduto Angelillo, avrebbe venduto anche lui, dovette accettare di zittirsi e sopportare, invece, gli insulti di Corso senza battere ciglio. I ct azzurri lo lasciarono a casa dai mondiali del Cile 62 e Mariolino ne provò rabbia e magone tanto che, in un match a San Siro fra Inter e Cecoslovacchia, ne scarta mezza dozzina ed entra in rete palla al piede. Poi caracolla sotto la tribuna dei tecnici azzurri e «batte il palmo della destra sulla doccia del gomito sinistro», racconta Gianni Brera. Il curriculum azzurro di Corso non è da primattore (23 partite). La storia con l'Inter propone vibrazioni esaltanti: 4 scudetti, due coppe Campioni, 2 coppe Intercontinentali, 502 gare, 94 reti, giudicato uno dei tre migliori italiani di sempre in nerazzurro: al primo posto rimane Meazza. Andò a vivere a Porta Romana, in compagnia di Guarneri: l'esordio assoluto in coppa Italia contro il Napoli, davanti a 5000 persone sedute sulle dure pietre dell'Arena. Poi in prima squadra, per sostituire la wandissima Skoglund: 35mila persone nel freddo San Siro, 23 novembre 1958, avversaria la Samp. Gli anni erano solo 17, prima di entrare in campo batte i tacchetti contro il terzo gradino, un atto scaramantico che ripeterà sempre. Gioca con Firmani e Angelillo ed è 5-1. Una settimana dopo, a Bologna, la prima rete in A. Visto da Brera in una delle prime partite «il giovanissimo Corso svagava sornione anche a ritroso. Aveva un ritmo da balia, un carrello adiposo, i popliti larghi da ragazza e si serviva della gamba destra come di una stampella. Il sinistro invece interessante».

Con quel sinistro conquistò il mondo. Inter-Roma, gennaio 1961: gol che definì il più bello della carriera, ne scarta quattro e supera Cudicini. Eppoi ricordi: «L'avversario più difficile Sogliano: pensava solo a non farti giocare; il gol più importante: coppa Intercontinentale 1964 a Madrid contro l'Indipendiente, la palla è viscida, l'aggancio di collo esterno sinistro, e tiro a mezzo volo». L'invenzione più bella? «Ovvio, la foglia morta». La perfezionò pensando al biliardo: un colpo leggero, secco con l'interno del sinistro. Agnelli si provò ad acquistarlo, Sivori lo voleva al suo fianco. Respinto. «È stato l'unico calciatore - racconta Moratti - che Pelè avrebbe chiesto per il Brasile». La carriera finì malamente al Genoa, rattristata da gravi infortuni. La vita lo ha ricompensato con la stima e l'amore della gente. Corso era bravo con i giovani anche da tecnico. La vocina sottile non urlava, ma raccontava e spiegava: che fosse allo stadio, sul campo o in tv.

Come una foglia che vola leggera, ma non ti fa sentir l'autunno.

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